ISAAC ASIMOV

LE GRANDI STORIE DELLA FANTASCIENZA 4

1942

(Isaac Asimov Presents

The Great Science Fiction Stories 4: 1942, 1980)

A cura di ISAAC ASIMOV & MARTIN H. GREENBERG

 

Indice

 

Introduzione

Il Topo Stellare di Fredric Brown

Le ali della notte di Lester del Rey

Collabora, altrimenti... di A.E. Van Vogt

La Fondazione di Isaac Asimov

La spinta di un dito di Alfred Bester

Manicomio di A.E. Van Vogt

Prova di Hal Clement

Nervi di Lester del Rey

Barriera di Anthony Boucher

Il Twonky di Lewis Padgett (Henry Kuttner e C.L. Moore)

QRM Interplanetario di George O. Smith

Il negozio d'armi di A.E. Van Vogt

Mimesi di Donald A. Wollheim

 

Introduzione

 

Nel mondo al di fuori della realtà, l'anno incominciò male e poi migliorò. Il 10 gennaio i giapponesi invasero le Indie Orientali e il 19 incominciarono l'invasione della Birmania. Peggio ancora, l'Afrika Korps di Rommel intraprese una nuova avanzata verso l'Egitto il 21 gennaio, minacciando tutte le posizioni alleate nell'Africa Settentrionale, e i britannici subirono un'altra sconfitta quando Singapore si arrese il 15 febbraio; due settimane dopo Vidkun Quisling divenne primo ministro della Norvegia e aggiunse una parola nuova al linguaggio del collaborazionismo.

Il Giappone continuò l'avanzata sul fronte del Pacifico con la resa di Bataan il 9 aprile, la presa di Mandalay il 1° maggio e la resa dell'eroica guarnigione di Corregidor il 6 maggio. Soltanto i risultati un po' incerti ottenuti dalla marina statunitense nella battaglia di Midway intorno al 3 giugno interruppero una serie consecutiva di successi giapponesi.

Rommel sembrò invincibile nell'Africa settentrionale quando il 21 giugno cadde Tobruk, ma poi una serie di avvenimenti preannunciò l'inizio della fine delle forze dell'Asse: truppe americane sbarcarono a Guadalcanal nel Pacifico il 7 agosto, la grande offensiva tedesca contro Stalingrado fu sanguinosamente arrestata con l'avanzare dell'autunno e il 23 ottobre i britannici contrattaccarono Rommel a El Alamein... il 4 novembre i tedeschi erano in ritirata e quattro giorni dopo la loro sorte fu segnata quando le forze alleate sbarcarono nell'Africa del Nord. Il 19 novembre l'esercito tedesco a Stalingrado era accerchiato dalla controffensiva sovietica, e alcuni membri dello Stato Maggiore nazista cominciarono a rendersi conto dell'ineluttabilità della fine.

Il 2 dicembre, nei sotterranei dell'Università di Chicago, un fisico immigrato, Enrico Fermi, ottenne la prima reazione a catena controllata nel primo reattore nucleare del mondo: era iniziata l'era atomica.

Durante il 1942 John Steinbeck pubblicò La luna è tramontata, mentre Dmitri Shostakovich componeva la sua Settima sinfonia. Il grande Ted Williams fu il capobattitore della massima divisione di baseball con una media di 0,351. I film di maggior successo, quell'anno, furono Com'era verde la mia valle, Holiday Inn e La signora Miniver.

Fu pubblicato il Piano Beveridge, che portò direttamente all'attuale stato assistenziale in Gran Bretagna, e fu pubblicato anche lo studio classico di James Burnham, La rivoluzione manageriale. Aaron Copland compose il suo bellissimo Ritratto di Lincoln e Shut Out vinse il Derby del Kentucky, suscitando grande scalpore. Albert Camus pubblicò Lo straniero, che divenne una delle bibbie dell'alienazione.

Certe cose non cambiarono. Joe Louis era ancora il campione mondiale dei pesi massimi; e il primato mondiale sulla distanza del miglio era ancora il 4'06"4 stabilito da Sydney Wooderson nel 1937.

Il 1942 fu un anno straordinario per la scienza. Oltre al risultato ottenuto da Fermi, vi fu il riuscito collaudo delle V-2 da parte dei tedeschi, mentre negli Stati Uniti veniva montato ENIAC (Electronic Numerical Integrator and Computer), il primo vero computer del mondo.

Greer Garson e James Cagney vinsero gli Oscar. I Washington Redskins vinsero il campionato nazionale di football americano e John Piper dipinse Il Castello di Windsor. C.S. Lewis pubblicò The Screwtape Letters. I Cardinals di St. Louis sconfissero gli Yankees di New York per quattro a uno nella partita decisiva. Graham Sutherland dipinse il suo famoso e non ideologico Paesaggio rosso. T.S. Eliot pubblicò Little Gidding, mentre lo studio di Erich Fromme, Fuga dalla libertà, appariva nel contempo appropriato e fuori posto in quell'anno totalitario. Lo Stanford vinse il campionato americano di pallacanestro.

Mel Brooks si chiamava ancora Melvin Kaminsky.

 

Nel mondo reale fu un altro anno ottimo, anche se moltissimi dei maggiori scrittori (e moltissimi fan) presto sarebbero stati arruolati o avrebbero cominciato a lavorare nelle industrie o nelle ricerche belliche.

Non nacquero nuove riviste fantascientifiche, ma tutte quelle americane esistenti riuscirono a superare l'anno, ad eccezione di Stirring Science Stories, che chiuse in marzo.

Nel mondo reale, altri personaggi importanti spiccarono il volo inaugurale: Hal Clement con Prova e Robert Abernathy con Eredità in giugno; in ottobre, George O. Smith con QRM- Interplanetario e in dicembre E(dna) Mayne Hull con Il volo fallito.

Altre cose meravigliose avvennero nel mondo reale: Robert A. Heinlein (con il nome di Anson MacDonald) pubblicò Oltre l'orizzonte e Waldo; Jack Williamson (con il nome di Will Stewart) pubblicò Orbita di collisione, la prima vicenda della sua ottima serie Seetee ed Asimov incominciò la sua classica serie della Fondazione.

La morte portò via Aleicsander Belyaev, uno dei pionieri della fantascienza sovietica.

Ma c'era un lontano frullo d'ali, perché nascevano C. J. Cherryh, Samuel R. Delany, Langdon Jones, David Ketterer, Franz Rottensteiner, Douglas Trumbull, William Joe Watkins e Chelsea Quinn Yarbro.

Ritorniamo a quell'onorato anno 1942 e godiamoci i racconti migliori lasciatici dal mondo reale.

 

Il Topo Stellare

The Star Mouse

di Fredric Brown

Planet Stories , Febbraio

 

Sebbene il compianto Fredric Brown si fosse costruito la reputazione grazie allo spirito e all'umorismo che caratterizzavano le sue vicende, apportava nella sua opera anche una forte dose di cinismo. Si era specializzato nei racconti brevissimi, e la fantascienza deve ancora trovare chi lo eguagli in questo genere, che forse è il più difficile di tutti. I suoi romanzi includono lo spassoso What Mad Universe (1949, Assurdo universo), il sobrio e toccante The Lights in the Sky Are Stars (1953, Le luci in cielo sono stelle) e Martians Go Home (1955, Marziani, tornate a casa), ma il miglior volume di fantascienza che porti il suo nome è The Best of Fredric Brown (1977, Il meglio di Fredric Brown). Splendido artigiano di diversi generi letterari, ha scritto opere poliziesche e di suspense anche più belle della sua fantascienza.

«Il topo stellare» è una favola per tutte le età, e presenta uno dei protagonisti più deliziosi della storia della science fiction.

 

(Conobbi Fred Brown soltanto nel dicembre 1948, durante una riunione del Hydra Club in casa di Fletcher Pratt. Fred era Piccolino ed esile e aveva l'aria del ragioniere, ma era il classico esempio dell'uomo ben diverso dai libri che scriveva. Il suo Screaming Mimi era un classico, e tra le sue opere è la mia preferita. Si ostinava a giocare a scacchi con me, ma era cinque volte più bravo. Tuttavia, mentre giocava parlava (forse senza rendersene conto) e ragionava continuamente su quello che pensava che io stessi facendo. Così rizzai le orecchie e cominciai a fare quello che lui pensava che io stessi facendo, e alla fine riuscii a strappargli un pareggio e poi a interrompere il gioco mentre ero in vantaggio. Quando qualcuno, tra l'altro, mi chiese se è possibile scrivere buona fantascienza senza conoscere la scienza, rispondo sempre «sì» e cito come esempi parecchi scrittori, uno dei quali è Fred Brown - I.A.)

 

Mitkey il Topo, allora non era Mitkey.

Era soltanto un topolino come gli altri, e viveva dietro il parquet e l'intonaco della casa del grande Herr Professor Oberburger, già delle università di Vienna e di Heidelberg, quindi profugo per sottrarsi all'eccessiva ammirazione del più potente tra i suoi compatrioti. L'eccessiva ammirazione non riguardava personalmente Herr Oberburger, bensì un certo gas che rappresentava un sottoprodotto di un fallito combustibile per razzi... e che avrebbe potuto risultare utilissimo per certi altri scopi.

Sempre che, naturalmente, il professore avesse consegnato la formula esatta. E lui... Beh, comunque, il professore era riuscito a scappare e adesso viveva in una casa del Connecticut. E anche Mitkey.

Un topolino grigio e un ometto grigio. Nessuno dei due aveva l'aria eccezionale. In particolare, Mitkey non aveva nulla di eccezionale; aveva famiglia e apprezzava molto il formaggio e, se fosse esistito il Rotary dei topi, lui ne avrebbe fatto parte.

Herr Professor, naturalmente, aveva le sue piccole eccentricità. Era uno scapolo inveterato e non aveva nessuno con cui parlare, eccettuato se stesso; ma si considerava un ottimo conversatore, e dialogava di continuo con se stesso mentre dialogava. Questo fatto, come risultò poi, era importante, perché Mitkey aveva un udito eccellente e sentiva quei soliloqui che duravano tutta la notte. Naturalmente non li capiva. Se ci pensava, si limitava a considerare il professore un supertopo grosso e rumorosissimo che squittiva troppo.

«Und atesso,» diceva fra sé il professore, «fedremo se ghli ughelli sono stati torniti alla perfezione. Tofrebbero kollimare a vun centomillesimo di pollice. Ahhh, è perfekto. Und atesso...».

Notte dopo notte, giorno dopo giorno, mese dopo mese. L'ordigno lucente cresceva, e di pari passo cresceva il luccichio negli occhi di Herr Oberburger.

Era lungo poco più di un metro, e aveva ali stranamente sagomate, e posava su una struttura provvisoria, sopra un tavolo al centro della stanza che Herr Professor utilizzava un po' per tutto. La casa in cui vivevano lui e Mitkey aveva quattro stanze, ma a quanto pareva il professore non se n'era ancora accorto. All'inizio, aveva deciso di usare la stanza più grande come laboratorio, ma poi aveva ritenuto più comodo dormire su una branda in un angolo, quando dormiva, e cucinare quella poca roba che cucinava sullo stesso bruciatore a gas che gli serviva per fondere i granelli dorati di trìtolo in una pericolosa brodaglia che salava e pepava con strani ingredienti, ma che non mangiava mai.

«Und atesso lo ferserò nelle profette, e fedrò se vun' profetta atiacente a vun'altra fa explotere der seconda profetta kvando...».

Quella notte, poco mancò che Mitkey decidesse di traslocare con la famiglia in una dimora più stabile, che non sussultasse e non oscillasse e non cercasse di capovolgersi sulle fondamenta. Ma alla fine Mitkey non traslocò, perché c'erano anche vari vantaggi.

Buchi nuovi dappertutto e — gioia delle gioie! — una grossa crepa nella parte posteriore del frigorifero dove il professore teneva, oltre ad altra roba, anche i viveri.

Naturalmente, le provette erano di dimensioni capillari, altrimenti la casa non sarebbe sicuramente rimasta intorno alla tana. E naturalmente Mitkey non poteva immaginare quel che stava per accadere, e non capiva l'inglese di Herr Professor (e nessun'altra varietà d'inglese, del resto), altrimenti non si sarebbe lasciato indurre in tentazione neppure dalla crepa nel frigorifero.

Quella mattina, il professore era giubilante.

«Der combustibile funziona! Der seconda profetta non è explosa. Und der prima, in sekzioni, kome mi akspettavo! Und è più potente: ci sarà krande spazio per der kompartimento...».

Ah, sì, il compartimento. Fu a questo punto che entrò in scena Mitkey, sebbene allora non lo sapesse neppure il professore. Anzi, il professore non sapeva nemmeno che esistesse Mitkey.

«Und atesso,» stava spiegando al suo ascoltatore prediletto, «si tratta zoltanto di kombinare der tubi del kombustibile in modo khe funzioni a koppie opposte. Und poi...».

Fu in quel momento che, per la prima volta, gli occhi di Herr Professor si posarono su Mitkey. O meglio, si posarono su un paio di baffi grigi e su un nasetto nero e lucido che spuntavano da un buco nel parquet.

«Bene!» esclamò. «Khe kosa abbiamo? Mitkey Mouse, Topolino in persona. Mitkey, ti piacerebbe fare un fiaggetto, la settimana proxsima? Fetremo!».

 

E fu così che, la prima volta che il professore ordinò provviste in città, l'ordinazione incluse anche una trappola per topi... non del tipo che uccide, ma del tipo a gabbietta, detto anche «a pasticcino». E la trappola era stata piazzata, con il relativo formaggio, da non più di dieci minuti, quando l'olfatto finissimo di Mitkey captò l'odore del formaggio, e Mitkey segui il proprio naso, finendo prigioniero.

Tuttavia, la prigionia non fu spiacevole. Mitkey era trattato da ospite d'onore. La gabbia, adesso, era piazzata sul tavolo da lavoro del professore, il quale spingeva tra le sbarre quantità tali di formaggio da causare un'indigestione, e non parlava più con se stesso.

«Fedi, Mitkey, afevo intenzione di khiedere kvalche topolino bianco a der laboratorio di Hartford, ma perkhé tovrei farlo se ci sei tu? Sono sikuro khe tu sei più sano und robusto und kapace di resistere a un lungo fiaggio di kvei topi da laboratorio. No? Ah, stai aghitando i paffi e kvesto sighnifica sì, no? Und essendo abituato a fifere al buio tovresti soffrire di klaustrofobia meno di loro, no?».

E Mitkey ingrassava, felice, e dimenticava ogni intenzione di evadere dalla gabbia. Temo che dimenticasse persino la famiglia che aveva abbandonato: ma sapeva — ammesso che sapesse qualcosa — che non aveva nessun motivo di preoccuparsene. Almeno finché il professore non avesse scoperto e tappato la falla nel frigorifero. E decisamente, il professore non pensava al frigo.

«Und kvuindi. Mitkey. metteremo kvesta ala kosì... und serfe zolanto per aiutare in der atterraggio, in vun'atmosfera. Und kveste serfiranno per farti scentere sano und salvo, kosì lentamente khe ghli ammortizzatori in der kompartimento mobile ti evitino di spattere la testa troppo forte, kredo». Naturalmente, a Mitkey sfuggi quella poco incoraggiante precisazione contenuta nel «kredo», perché gli sfuggì anche tutto il resto. Come è già stato spiegato, non capiva l'inglese. Allora.

Ma Herr Oberburger gli parlava lo stesso. Gli mostrava i fumetti. — «Hai mai fisto der Topolino da kui hai preso der nome, Mitkey? Kome? No? Gvarda. kvesto è der originale Mitkey Mouse, di Valt Dissney. Ma io kredo che tu sei più karino, Mitkey».

Probabilmente, il professore era un po' matto, a parlare così a un topolino grigio. Anzi, doveva essere matto, per fabbricare un razzo che funzionava. La cosa strana, infatti, era che Herr Professor non era. un vero inventore. Come spiegò scrupolosamente a Mitkey, in quel razzo non c'era assolutamente nulla che fosse nuovo. Herr Professor era un tecnico: era capace di prendere le idee degli altri e di farle funzionare. La sua unica vera invenzione — il combustibile che non era un combustibile era stata passata al governo degli Stati Uniti, e si era accertato che era già nota, ed era stata scartata perché era troppo dispendiosa per uno sfruttamento pratico.

Come Herr Professor spiegava scrupolosamente a Mitkey: «È di sikuro kvestione di assoluta precisazione und di exsattezza matematica. Mitkey. È tutto kvi... noi kon piniamo tutto kvanto... und kosa otteniamo. Mitkey?

«Felocità di fuga. Mitkey! Dà appena exsattamente der felocità di fuga. Forse. Fi sono fattori ankora skonosciuti, Mitkey. in der atmosfera superiore, in der troposfera, der stratosfera. Noi krediamo di konoscere exsattamente kvanta aria c'è per kalkolare der resistenza, ma siamo assolutamente sikuri? No. Mitkey. non lo siamo. Non siamo stati lassù. Und der marghine è kosì stretto khe pasterebbe vuna korrente d'aria per kambiare tutto».

Ma Mitkey non importava niente. All'ombra dell'affusolato cilindro di lega d'alluminio, ingrassava felice.

«Der tag, Mitkey. der tag! Und non ti dirò menzoghne, Mitkey. Non ti tarò false axsicura/ioni. Tu parti per ein fiaggio perikoloso, mein pikkolo amiko.

«Ti tiamo cinkuanta propabilità su zento. Mitkey. Non der luna o morte, ma der luna und morte, oppure magari ein sikuro ritorno sulla Terra. Fedi, mein povero pikkolo Mitkey. der luna ncin fatta di formagghio verde, und ankhe se lo fosse tu non fivresti per manghiarlo perché non c'è appastanza atmosfera per farti scentere sano und salvo und con i tuoi paffi ankora interi.

«Und allora perkhé. potresti khiedere. ti ci mando? Perkhé der razzo forse non raggiungerà felocità di fuga. Und in kvesto kaso è ankora un experimento, però diferso. Der razzo, se non arrifa su der luna, rikade su der terra, no? Und in kvesto kaso certi istrumenti ci taranno altre informazioni su kvel khe c'è in der spazio. Und tu ci tarai informazioni, sekondo khe sarai fivo o no. se der ammortizzatori und der ali sono suffizienti in vun'atmosfera ekvivalente a kvella terrestre. Rapisci?

«Poi. kvando manteremo razzi a Venere, tove forse exsiste vun'atmosfera, afremo dati per kalkolare der krandezza nezessaria di ali und ammortizzatori, no? Und in entrampi i kasi, und sia khe tu ritorni o no, Mitkey, tu difenterai famoso! Sarai der prima kreatura fivente a uscire da der stratosfera di der terra, in der spazio.

«Mitkey, tu difenterai der Topo Stellare! Ti infidio, Mitkey, und forrei essere di tua krandezza, kosì potrei antare ank'io».

Der tag, e lo sportello del compartimento si chiuse. «Addio, pikkolo Mitkey Mouse». Oscurità. Silenzio. Frastuono!

«Der razzo... se non arriferà a der luna, rikadrà su der terra, no?». Era ciò che pensava il professore. Ma i piani migliori dei topi e degli uomini, come dice il proverbio, spesso non vanno come dovrebbero. Persino i piani di topi stellari.

E tutto a causa di Prxl.

 

Herr Professor si sentiva molto solo. Dopo aver avuto Mitkey con cui parlare, adesso i soliloqui gli sembravano vacui e inadeguati.

Forse qualcuno affermerà che la compagnia di un topolino grigio e un ben misero surrogato di una moglie; ma altri, forse, dissentiranno. E del resto, il professore non aveva mai avuto moglie e aveva avuto un topo con cui parlare, quindi ne sentiva la mancanza; mentre, se anche sentiva la mancanza di una moglie, non se ne accorgeva.

Durante la lunga notte dopo il lancio del razzo, il professore aveva avuto parecchio da fare con il suo telescopio, un simpatico riflettore da otto pollici, per controllare la rotta del veicolo che accelerava. Le espio sioni uscite dagli ugelli tracciavano un minuscolo, fluttuante punto luminoso che era possibile seguire, se si sapeva dove cercarlo.

Ma il giorno dopo sembrava che non ci fosse niente da fare, e il professore era troppo agitato per dormire, per quanto ci provasse. Quindi pervenne a un compromesso, mettendo un po' in ordine la casa, pulendo pentole e tegami. E mentre stava lavorando, senti una serie di squittii e scopri che un altro topolino grigio, con i baffi più corti e la coda più corta di Mitkey. era entrato nella trappola.

«Bene, bene.» disse il professore. «Khe kosa appiamo kvi? Minnie? Minnie è fenuta a zerkare suo Mitkey?».

Il professore non era un biologo, ma questa volta aveva ragione. Era davvero Minnie. O meglio, era la compagna di Mitkey. quindi il nome era adatto. Il professore non sapeva quale capriccio strano l'avesse spinta a entrare nella trappola priva di esca: ma era felice. Rimediò prontamente alla carenza dell'esca infilando attraverso le sbarre un cospicuo pezzetto di formaggio.

E così fu che Minnie prese il posto del consorte viaggiatore quale con fidente di Herr Professor.

Era impossibile capire se era preoccupata o no per la sua famiglia: ma non aveva motivo di stare in pensiero, perché la sua figliolanza era ormai cresciuta quanto bastava per arrangiarsi, dato soprattutto che quella casa offriva numerosi rifugi e un facile accesso al frigorifero.

«Ah. und atesso è appastanza skuro, Minnie, perkhé possiamo zerkare di federe tuo marito. La sua trazzia luminosa attraverso der zielo. È fero. Minnie, è una trazzia luminosa molto esile und der astronomi non la noteranno, perché non sanno tove zerkare. Ma noi si.

«Lui difenterà vun topo molto famoso. Minnie, il nostro Mitkey. kvando tiremo a der mondo di lui e di mein razzo. Fedi, Minnie, noi non l'appiamo ankora detto. Aspetteremo per rakkontare tutta der storia in ein folta. Entro l'alpa di domani noi...

«Ah, ekkolo, Minnie! La trazzia è fioka, ma c'è. Ti akkosterei a der teleskopio per farti federe, ma non sarebbe a fuoko per tuoi occhi, und io non so kome fare...

«Kvasi zentomila mighlia, Minnie, und sta ankora axselerando, ma non per molto. Il nostro Mitkey è in orario; anzi, fiaggia più feloce che afevamo pensato, no? Ormai è sikuro che sfugghirà a der gravità di terra, und cadrà su der luna!».

Naturalmente, fu una semplice coincidenza che Minnie squittisse.

«Ah, si, Minnie, pikkola Minnie, lo so. Non rifedremo più il nostro Mitkey, und kvasi forrei che nostro experimento fosse fallito. Ma ci saranno kompensazioni. Minnie. Lui difenterà der più famoso di tutti i topi. Der Topo Stellare! Der prima kreatura fivente mai uscita da der aktra zione gravitazionale di terra!».

La notta fu lunga. Di tanto in tanto le nubi altissime oscuravano la visibilità.

«Minnie, ti sistemerò più komodamente khe in kvella pikkola gabbia metallika. Ti piacerebbe se ti sembrasse di essere lipera, no, senza sparre, come der animali in zoo moterni, khe hanno inveze i fossati?».

E così, per far trascorrere un'ora mentre una nube oscurava il cielo. Herr Professor fece una casa nuova per Minnie. Era il fondo di una cassa di legno, spesso un centimetro e di trenta centimetri per trenta, piazzato sul tavolo, e senza barriere visibili.

Ma il professore copri la base, agli orli, con una sottile lamina metallica, e piazzò la tavola su una più grande, con una striscia di metallo che circondava la casa-isola di Minnie. E dalle due aree delle lamine c'erano fili che arrivavano ai poli opposti di un piccolo trasformatore.

«Und atesso. Minnie, ti metterò su tua isola, khe rifornirò appondantemente di formagghio und akvua, und fedrai che sarà un posto excellente per fiverci. Però ti prenterai una legghera skossa quando zerkerai di uscire da der isola. Non ti farà male, ma a te non piazerà, und dopo kvalkhe tentativo imparerai a non farlo più. no? Und...».

Di nuovo la notte.

Minnie era felice sulla sua isola, e aveva imparato la lezione. Non metteva più zampa sulla striscia metallica interna. Comunque, quell'isola era un paradiso per topi. C'era un pezzo di formaggio più grosso di Minnie. che la teneva molto occupata. Topolina e formaggio: e ben presto l'una sarebbe stata la trasmutazione dell'altro.

Ma il professor Oberburger non pensava a questo. Il professore era preoccupato. Quando ebbe fatto e rifatto i suoi calcoli ed ebbe puntato il suo riflettore da otto pollice attraverso il foro nel tetto ed ebbe spento le luci...

Sì, dopotutto la condizione di scapolo aveva i suoi vantaggi. Se uno vuole un buco nel tetto, pratica semplicemente un buco nel tetto, e nessuno gli dice che è pazzo. Se arriva l'inverno o se piove, si può sempre chiamare un carpentiere o usare un telone impermeabile.

Ma la fioca traccia luminosa non c'era. Il professore aggrottò la fronte e rifece i calcoli e li rifece ancora una volta e spostò il telescopio di tre decimi di minuto, ma non inquadrò il razzo.

«Minnie. c'è kvalkosa khe non va. O der ugelli hanno smesso di emettere fuoko, oppure...».

Oppure il razzo non viaggiava più in linea retta rispetto al punto di partenza. Per linea retta, ovviamente, s'intende parabolicamente curva rispetto a tutto quanto, esclusa la velocità.

Perciò Herr Professor fece l'unica cosa che gli restava ancora da fare e cominciò a cercare con il telescopio, in cerchi sempre più ampi. Impiegò due ore prima di trovarlo, già fuori rotta di cinque gradi, e stava deviando sempre di più in una... Beh. c'era un solo modo per descriverlo. Una spirale.

Quel maledetto coso stava girando in cerchio, un cerchio che sembrava costituire un'orbita intorno a qualcosa che non poteva esserci. K il cerchio si andava restringendo in una spirale.

Poi... più niente. Sparito. Tenebra. Più niente fiamme del razzo.

Pallidissimo, il professore si rivolse a Minnie.

«È impossibile, Minnie. Lo fedo con mein okkhi, ma non è possipile. Ankhe se ha smesso di emettere fuoko da ein parte, non poteva kominziare a girare in zerchio». Fece altri calcoli con la matita, e trovò la conferma dei suoi sospetti. «Und, Minnie, ha dezelerato assai più di kvanto era possipile. Ankhe mitt nessun ugello azzeso, der slanzio dofeva portarlo...».

Il resto della notte — fra telescopio e calcoli — non forni nessuna indicazione. Cioè, nessuna indicazione credibile. Una forza non inerente al razzo, e non spiegabile con la gravità, neppure con la gravità di un corpo celeste ipotetico, era entrata in azione.

«Mein povero Mitkey».

L'alba grigia, imperscrutabile. «Mein Minnie, dofrà rimanere ein sekreto. Non oseremo pubblikare kvello khe abbiamo fisto, perkhé nessuno lo krederebbe. Non sono sikuro di krederlo neppure io, Minnie. Forse perkhé era troppo stanko per non afer dormito. Ho immaghinato kvello che ho fisto...».

Più tardi: «Ma, Minnie. kontinueremo a sperare. A zentozinquantamila mighlia di distanza, era. Rikadrà su der terra. Ma non posso tire dote! Kredevo che se fosse suksesso. io afrei potuto kalkolare sua rotta und... Ma dopo kvei zerkhi conzentrizi, Minnie... neppure Einstein potrebbe kalkolare dofe atterrerà. Neppure io. Tutto kvel khe possiamo fare è spe rare che ferremo a sapere dofe kadrà».

Una giornata nuvolosa. Una notte nera, gelosa dei propri misteri.

«Minnie. il nostro povero Mitkey. Non c'è niente khe potrebbe afer kauzato...».

Ma qualcosa l'aveva causato.

Prxl.

 

Prxl è un asteroide. Gli astronomi terrestri non lo chiamano così perché — per ragioni validissime non lo hanno scoperto. Quindi noi lo chiameremo con la translitterazione più prossima a quella usata dai suoi abitanti. Sì. è abitato.

Ora che ci penso, il tentativo di inviare un razzo sulla luna, da parte del professor Oberburger. diede alcuni risultati strani. O meglio, li diede Prxl.

Non pensereste che un asteroide possa convertire un ubriacone, no? Ma un certo Charles Winslow, un bevitore inveterato di Bridgeport. Connecticut, non bevve mai più un sorso da quando — proprio su Grove Street — un topolino gli chiese la strada per Harford. Il topolino indossava un paio di calzoncini rossi e guanti giallovivo...

Ma questo avvenne quindici mesi dopo che il professore perse il suo razzo. Sarà bene ricominciare.

Prxl è un asteroide. Uno di quei disprezzati corpi celesti che gli astronomi terrestri chiamano guastafeste del cielo, perché quei maledetti così lasciano sulle lastre fotografiche tracce che confondono le osservazioni, assai più importanti, delle novae e delle nebulose. Cinquantamila pulci sul cane scuro della notte.

Quasi tutti sono piccolissimi. Gli astronomi hanno scoperto di recente che alcuni si avvicinano alla Terra. Si avvicinano sorprendentemente. Vi fu un notevole scalpore quando nel 1932 Amor passò a meno di dieci milioni di miglia: astronomicamente, una collisione mancata di poco. Poi Apollo ridusse la distanza quasi a metà, e nel 1936 Adone passò a meno d'un milione e mezzo di miglia.

Nel 1937 Hermes passò a meno di mezzo milione di miglia, ma gli astronomi si agitarono sul serio quando calcolarono l'orbita e scoprirono che quel piccolo asteroide lungo un miglio può arrivare a meno di duecentomila miglia dalla Terra, addirittura più vicino della luna.

Un giorno o l'altro può darsi che si agitino ancora di più, se e quando avvisteranno l'asteroide Prxl, lungo tre ottavi di miglio, mentre transita attraverso la luna, e scopriranno che spesso arriva appena a centomila miglia dal nostro vorticante pianeta.

Potranno scoprirlo soltanto nell'eventualità di un transito, comunque, perché Prxl non riflette la luce. O almeno, non la riflette più da diversi milioni di anni, da quando i suoi abitanti lo ricoprirono di un pigmento nero che assorbe la luce e che fu estratto dalle sue viscere. Fu un compito monumentale, dipingere un mondo, per essere alti un centimetro. Però ne valeva la pena, a quel tempo. Quando ne ebbero spostato l'orbita, furono al sicuro dai loro nemici. I nemici, a quei tempi, erano giganti... i pirati di Deimos, alti venti centimetri. Arrivarono persino sulla Terra, un paio di volte, prima di uscire di scena. Erano piccoli, simpatici giganti che uccidevano per il gusto di farlo. I documenti che esistono nelle città ormai sepolte di Deimos potrebbero spiegare che cosa accadde ai dinosauri. E perché i Cro-Magnon. che promettevano così bene, scomparvero al culmine della loro promessa pochi minuti cosmici dopo l'estinzione dei dinosauri.

Ma Prxl sopravvisse. Il minuscolo mondo non rifletteva più i raggi solari, e i massacratori cosmici lo persero per sempre di vista, quando la sua orbita fu modificata.

Prxl. Ancora civile, con una civiltà vecchia di milioni di anni. Il rivestimento nero veniva conservato e rinnovato regolarmente, più in omaggio alla tradizione che per paura dei nemici, in quei tempi tardi e degenerati. Una civiltà possente ma stagnante, rimasta immobile su un mondo che sfreccia come un proiettile.

E Mitkey Mouse.

 

Klarloth, scienziato capo d'una razza di scienziati, batté su quella che avrebbe potuto essere la spalla del suo assistente Bemj, se Bemj avesse avuto le spalle. «Guarda,» disse, «che cosa si sta avvicinando a Prxl. Evidentemente la propulsione è artificiale».

Bemj guardò lo schermo a muro, quindi diresse un'onda-pensiero verso il meccanismo che aumentò l'ingrandimento di mille volte, mediante un'alterazione del campo elettronico.

L'immagine sussultò, si confuse, poi si consolidò. «Artificiale», disse Bemj. «Estremamente rudimentale, devo dire. Un razzo primitivo, alimentato con combustibile esplosivo. Aspetta. Controllerò da dove arriva».

Lesse i dati sui quadranti intorno allo schermo e li scagliò, sotto forma di pensieri, verso la psicobobina del computer, poi attese mentre quella macchina complicatissima assimilava tutti i fattori e preparava la risposta. Quindi, impaziente, mise la propria mente in contatto con il proiettore. Anche Klarloth ascoltò quella trasmissione silenziosa.

L'esatto punto sulla Terra e l'esatta ora della partenza. Un'espressione intraducibile della curva della traiettoria, e il punto della curva in cui il veicolo era stato deviato dall'attrazione gravitazionale di Prxl. La destinazione — o almeno, la destinazione presunta d'origine — era evidente: la luna della Terra. Poi, il tempo e il luogo dell'arrivo su Prxl, se l'attuale rotta del razzo fosse rimasta immutata.

«La Terra», disse pensieroso Klarloth. «Erano ancora molto lontani dal volo spaziale, l'ultima volta che lì abbiamo controllati. Non c'era in corso una specie di crociata, una guerra religiosa?».

Bemj annui. «Catapulte. Archi e frecce. Hanno fatto un bel passo avanti, da allora, anche se questo razzo è soltanto un ordigno sperimentale primitivo. Dobbiamo distruggerlo prima che arrivi qui?».

Klarloth scosse il capo. «Osserviamolo bene. Potrebbe risparmiarci un viaggio fino alla Terra: giudicheremo il loro stato attuale di evoluzione basandoci sul razzo».

«Ma allora dovremo...».

«Certamente. Chiama la Stazione, di' loro che puntino gli attratto-repulsori sul razzo e lo inseriscano in un'orbita temporanea, mentre preparano un supporto per l'atterraggio. E che non dimentichino di neutralizzare l'esplosivo, prima di farlo scendere».

«Un campo di forza temporaneo intorno al punto d'atterraggio... per ogni eventualità?».

«Naturalmente».

Perciò, nonostante l'assenza quasi totale di un'atmosfera che avrebbe permesso alle ali di funzionare, il razzo atterrò sano e salvo, e così dolcemente che Mitkey, nel compartimento buio, notò soltanto che il baccano tremendo era cessato.

Mitkey si senti meglio. Mangiò ancora un po' del formaggio che abbondava nel suo compartimento. Poi riprese i tentativi di aprirsi un varco con i denti nel legno spesso due centimetri che rivestiva quel vano. Quel rivestimento di legno era stato un premuroso pensiero di Herr Professor per la tranquillità mentale di Mitkey. Sapeva che, cercando di rosicchiarlo per uscirne, Mitkey avrebbe avuto qualcosa da fare durante il viaggio e non sarebbe diventato isterico. L'idea aveva funzionato: indaffaratissimo, Mitkey non aveva sofferto mentalmente per la reclusione al buio. E adesso che c'era silenzio, rosicchiò più industriosamente e allegramente che mai, subliminalmente inconsapevole che, quando avesse finito di rosicchiare il legno, avrebbe trovato soltanto il metallo che non poteva rodere.

Ma anche persone assai migliori di Mitkey hanno trovato spesso cose troppo dure per i loro denti.

Nel frattempo Klarloth, Bemj e molte altre migliaia di prxliani stavano a guardare l'enorme razzo che, sebbene fosse posato sul fianco, torreggiava altissimo sopra le loro teste. Alcuni dei più giovani, dimentichi dell'invisibile campo di forza, si avvicinarono troppo e tornarono indietro massaggiandosi la testa ammaccata.

Klarloth s'era piazzato davanti allo psicografo.

«C'è vita, nel razzo», disse a Bemj. «Ma le impressioni sono confuse. C'è un solo essere, ma non riesco a seguire i suoi processi di pensiero. In questo momento, sembra che stia facendo qualcosa con i denti».

«Non può essere un terrestre, un membro della razza dominante. Sono molto più grossi di questo razzo enorme. Esseri giganteschi. Forse, incapaci di costruire un razzo abbastanza grande per contenere uno di loro, hanno inviato un animale sperimentale, come i nostri woorath».

«Credo che la tua intuizione sia esatta, Bemj. Bene, quando avremo esplorato la sua mente, potremo comunque apprendere abbastanza per risparmiarci un viaggio d'accertamento alla Terra. Aprirò il portello».

«Ma l'aria... gli esseri terrestri hanno bisogno di un'atmosfera pesante, quasi densa. Non potrebbe sopravvivere».

«Manterremo il campo di forza, naturalmente, e tratterrà l'aria. Ovviamente c'è un apparecchio che fornisce l'aria all'interno del razzo, altrimenti l'essere non sarebbe sopravvissuto al viaggio».

Klarloth azionò i comandi, e il campo di forza estromise pseudopodi invisibili e girò il portello a vite esterno, poi si insinuò e aprì il portello interno che comunicava con il compartimento.

 

Tutti i prxliani osservarono trattenendo il respiro, quando una mostruosa testa grigia apparve nell'enorme apertura, lassù. Baffi folti, ognuno dei quali era lungo quanto il corpo di un prxliano...

Mitkey saltò giù, avanzò di un passo e andò a sbattere duramente il naso nero... contro qualcosa che non c'era. Squittì, e balzò indietro, contro il razzo.

Bemj alzò lo sguardo verso il mostro. «Evidentemente è molto meno intelligente di un woorath. Tanto vale attivare il raggio».

«No certo», l'interruppe Klarloth. «Tu dimentichi certi fatti chiarissimi. L'essere non è intelligente, è ovvio, ma il subconscio di ogni animale conserva ogni impressione, ogni immagine sensoriale che ha ricevuto. Se questo essere ha avuto modo di udire il linguaggio dei terrestri, o ha visto qualcuna delle loro opere, oltre a questo razzo, ogni parola e ogni immagine gli sono rimaste impresse incancellabilmente. Capisci che cosa intendo?».

«Certo. Che stupido sono stato, Klarloth. Bene, una cosa possiamo dedurla dallo stesso razzo: non avremo nulla da temere dalla scienza terrestre, almeno per qualche millennio. Quindi non c'è fretta, ed è una vera fortuna. Perché far ritornare la memoria dell'essere al tempo della nascita, e seguire ogni impressione sensoriale attraverso lo psicografo... ecco, occorrerà un tempo equivalente almeno all'età dell'essere, quale che sia, più il tempo che ci sarà necessario per interpretarle e assimilarle».

«Ma questo non sarà necessario, Bemj».

«No? Oh, vuoi dire le onde X-19?».

«Precisamente. Puntate sul centro cerebrale dell'essere, possono, senza alterare i suoi ricordi, venire regolate delicatamente in modo di accrescere la sua intelligenza — ora senza dubbio intorno al valore di 0,0001 — fino al punto di renderlo ragionante. Quasi automaticamente, durante il processo, assimilerà i propri ricordi, e li comprenderà come li comprenderebbe se fosse stato intelligente al tempo in cui ha ricevuto quelle impressioni».

«Capisci, Bemj? Scarterà automaticamente i dati non pertinenti e potrà rispondere alle nostre domande».

«Ma vorresti renderlo intelligente quanto...?».

«Quanto noi? No, le onde X-19 non avrebbero un simile effetto. Direi che arriverebbe a un valore di 0,2. E questo, a giudicare dal razzo e da ciò che ricordiamo dei terrestri dal nostro ultimo viaggio sul pianeta, è all'incirca il loro posto attuale sulla scala dell'intelligenza».

«Uhm, si. Su quel livello, lui comprenderebbe le sue esperienze sulla Terra quanto basta per non diventare pericoloso per noi. Eguale a un terrestre intelligente.

Andrebbe benissimo per il nostro scopo. Allora, gli insegneremo la nostra lingua?».

«Aspetta», disse Klarloth. Studiò attentamente lo psicografo per qualche istante. «No, non credo. Avrà un suo linguaggio. Vedo, nel suo subconscio, i ricordi di molte, lunghe conversazioni. Stranamente, sembrano tutti monologhi di una sola persona. Ma avrà un linguaggio... molto semplice. Impiegherebbe un tempo lunghissimo, anche con l'aiuto di un trattamento, per afferrare i concetti del nostro metodo di comunicazione. Però noi possiami imparare il suo, mentre viene sottoposto alla macchina X-19, in pochi minuti».

«Adesso capisce quella lingua?».

Klarloth studiò di nuovo lo psicografo. «No, non credo che... Aspetta, c'è una parola che sembra significare qualcosa, per lui. La parola 'Mitkey'. Sembra che sia il suo nome e ritengo che, avendola sentita molte volte, l'associ vagamente a se stesso».

«E ci vorrà un alloggio per lui... con portelli stagni e camere di compensazione e tutto il resto?».

«Naturalmente. Dai l'ordine di costruirlo».

 

Dire che per Mitkey fu un'esperienza strana è dir poco. La conoscenza è una cosa strana, anche quando viene acquisita gradualmente. Ma vedersela imposta così all'improvviso...

E c'erano tante piccole cose da risolvere. Per esempio, il problema delle corde vocali. Le sue non erano adatte alla lingua che adesso scopriva di sapere. Bemj sistemò tutto: non si poteva neppure parlare di un'operazione perché Mitkey — anche con la sua nuova sensibilità — non comprese che cosa succedesse, sebbene rimanesse ben sveglio. E i prxliani non spiegarono a Mitkey la dimensione J, attraverso la quale si può arrivare all'interno delle cose senza penetrarne l'esterno.

Idearono molte cose che non rientravano nella linea di Mitkey, e del resto erano interessati a imparare da lui, più che a'd insegnargli. Bemj e Klarloth e una dozzina d'altri ebbero quel privilegio. Facevano a turno per parlargli.

Le loro domande favorivano la sua crescente comprensione. Di solito, lui non sapeva di conoscere la risposta a una domanda, fino a quando non gli veniva rivolta. Allora, senza sapere come facesse (come voi ed io non sappiamo come conosciamo le cose), metteva insieme tutto quanto e rispondeva.

Bemj: «La linghua khe parli è unifersale?».

E Mitkey, sebbene prima non ci avesse mai pensato, aveva la risposta pronta: «No, non lo è. È ingleze, ma io rikordo der Herr Professor khe parlafa di altre linghue. Kredo khe in orighine lui ne parlasse ein altra, ma in Amerika parlafa sempre ingleze per familiarizzarsi. È vuna linghua pellissima, no?».

«Uhm», disse Bemj.

Klarloth «Und der tua razza, i topi. Fengono trattati bene?».

«Da kran parte della gente, no,» risposte Mitkey, e spiegò.

«Mi piazerebbe fare kvalkosa per loro», aggiunge. «Sentite, non potrei riportare intietro mitt me kvesto prozesso khe afete adoperato? Potrei applikarlo aghli altri topi, und kreare una razza di supertopi».

«Perkhé no?» disse Bemj.

Vide che Klarloth lo guardava in modo strano, e mise la propria mente in contatto con quella dello scienziato capo, escludendo Mitkey dalla comunicazione silenziosa.

«Sì, certo», disse Bemj a Klarloth, «causerebbe guai sulla Terra, guai seri. Due classi eguali di esseri, dissimili come i topi e gli uomini, non possono coesistere pacificamente. Ma perché dovremmo preoccuparcene? A noi sarebbe utile. Il caos risultante rallenterà il progresso sulla Terra... ci darà qualche altro millennio di pace, prima che i terrestri scoprano la nostra presenza e vengano a darci fastidio. Sai bene come sono, quelli».

«Ma tu vorresti dar loro le onde X-19? Potrebbero...».

«No, naturalmente no. Ma possiamo spiegare a Mitkey come costruire per loro una macchina molto rudimentale e limitata. Una macchina primitiva, che basti appena a elevare la mentalità dei topi dallo 0,0001 allo 0,2, il livello attuale di Mitkey e dei bipedi terrestri».

«È possibile», comunicò Klarloth. «È certo che ancora per molti eoni non riusciranno a comprendere il principio fondamentale».

«Ma non potrebbero servirsi anche d'una macchina rudimentale per elevare il loro livello d'intelligenza?».

«Tu dimentichi, Bemj, la limitazione fondamentale dei raggi X-19; nessuno può progettare un proiettore capace di innalzare una mentalità a un punto della scala più elevata della propria. Non lo possiamo neppure noi».

Tutto questo dialogo, naturalmente, si svolse all'insaputa di Mitkey, in prxliano silenzioso.

Altri colloqui e altri ancora.

Di nuovo Klarloth: «Mitkey, dobbiamo affertirti di ein kosa. Efita oghni imprutenza mitt l'elettricità. Der nuova disposizione molekolare del tuo zentro zerebrale... è instapile und...»

Bemj: «Mitkey, sei sikuro che der tuo Herr Professor sia der più avanzato tra kvelli khe fanno experimenti mitt der razzi?»

«In zenerale, sì, Bemj. Ci sono altri khe su argomenti spezifizi, come explosivi, matematika, astrofisika, possono saperne di più, ma non molto. Und in kvanto a kombinare kveste konoscenze, lui è molto più afanti».

«Kosì fa bene», disse Bemj.

Un topolino grigio che torreggiava come un dinosauro sui prxliani alti un centimetro. Sebbene fosse un essere mite, Mitkey avrebbe potuto uccidere a morsi ognuno di loro. Ma naturalmente non gli passò mai per la mente, e loro non temevano che potesse farlo.

Lo frugarono mentalmente. Lo studiarono anche fisicamente, ma attraverso la dimensione J, e Mitkey non se ne accorse neppure.

Scoprirono come funzionava il suo organismo e scoprirono tutto ciò che lui sapeva, più varie cose che lui non immaginava neppure di sapere. E si affezionarono a lui.

«Mitkey», disse un giorno Klarloth, «tutte der razze zivili su Terra portano intumenti, vero? Bene, se tu tovrai elefare der livello dei topi all'altezza deghli uomini, non sarebbe loghico khe ankhe tu portassi festiti?».

«Un'excellente idea, Herr Klarloth. Und so ankhe kome dofrei festirmi. Herr Professor una folta mi ha mostrato il diseghno di ein topo dipinto da der artista Dissney, und der topo portava festiti. Der topo non era proprio fero, ma ein topo immaghinario in una fafola, und der Professor ha khiamato me Mitkey kome der topo di Dissney».

«Khe ghenere di festiti, Mitkey?».

«Kalzonzini rossi mitt due krandi pottoni gialli dafanti und due dietro, un skarpe gialle per zampe di dietro und ghuanti gialli per zampe dafanti. Und un buko in der fonto di kalzonzini per far passare der koda».

«D'akkordo, Mitkey, saranno pronti in zinkve minuti».

Era la vigilia della partenza di Mitkey. All'inizio, Bemj aveva proposto di attendere il momento in cui l'orbita eccentrica di Prxl avrebbe riportato il loro mondo a centocinquantamila miglia dalla Terra. Ma, come fece osservare Klarloth, questo sarebbe avvenuto di lì a sessantacinque anni terrestri, e Mitkey non sarebbe vissuto tanto. A meno che loro... E Bemj ammise che non potevano correre il rischio di inviare sulla Terra un simile segreto.

Quindi trovarono un compromesso: rifornirono il razzo di Mitkey con un combustibile in grado di annullare il milione e duecentomila miglia che avrebbe dovuto percorrere. Non dovevano preoccuparsi di quel segreto, perché il combustibile si sarebbe consumato tutto prima che il razzo atterrasse.

Il giorno della partenza.

«Noi appiamo fatto del nostro meghlio, Mitkey, per regholare der razzo in modo khe atterri nel posto da dofe sei partito. Ma non puoi pretentere krande prezisione da ein fiaggio tanto lungo. Komunkvue, atterrerai vizino. Il resto tokka a te. Appiamo ekvipaggiato der razzo per oghni contingenza».

«Grazie, Herr Klarloth, Herr Bemj. Addio».

«Addio, Mitkey. Ci dispiazie perderti».

«Addio, Mitkey».

«Addio, addio...».

Per un viaggio di un milione, e duecentocinquantamila miglia, la mira era straordinariamente precisa. Il razzo atterrò nel Long Island Sound, dieci miglia al largo di Brideport, circa sessanta miglia dalla casa del professor Oberburger, che si trovava presso Hartford.

I prxliani avevano preparato tutto per un ammaraggio, naturalmente. Il razzo scese verso il fondo, ma prima che scendesse a più di quattro metri, Mitkey aprì il portello — appositamente modificato perché potesse aprirlo dall'interno — e uscì.

Sopra gli abiti normali portava uno scafandro da palombaro che l'avrebbe protetto a qualunque profondità ragionevole e che, essendo più leggero dell'acqua, lo portò rapidamente a galla, dove lui poté aprire il casco.

Non aveva viveri sintetici sufficienti per una settimana, ma non era necessario. Il battello notturno che arrivava da Boston lo portò a Bridgeport, aggrappato alla catena dell'ancora, e quando fu in vista della terraferma si tolse lo scafandro e lo lasciò andare a fondo, dopo aver perforato i minuscoli scompartimenti pneumatici che lo facevano galleggiare, come aveva promesso a Klarloth.

Quasi istintivamente, Mitkey sapeva che avrebbe fatto bene ad evitare gli esseri umani prima di aver raggiunto il professor Oberburger e di avergli raccontato la sua storia. Il pericolo più grave fu rappresentato dai ratti, sul molo dove arrivò a nuoto. Erano dieci volte più grossi di Mitkey e avevano certi denti che avrebbero potuto farlo a pezzi in due morsi.

Ma la mente ha sempre trionfato sulla materia. Mitkey puntò imperiosamente un guanto giallo e ordinò: «Sparite», e i ratti sparirono. Non avevano mai visto niente che somigliasse a Mitkey, ed erano molto impressionati.

E rimase molto impressionato anche l'ubriaco al quale Mitkey chiese la strada per Harford. Fu l'unica volta che Mitkey tentò una comunicazione diretta con esseri umani sconosciuti. Naturalmente, prese tutte le precauzioni. Gli parlò da una posizione strategica a pochi centimetri da un buco nel quale avrebbe potuto eventualmente scappare. Ma fu l'ubriaco a scappare, senza neppure rispondere alla domanda di Mitkey.

Comunque, arrivò a Hartford. Andò a piedi fino al lato nord della città e si nascose dietro un distributore fino a quando sentì un automobilista, fermatosi per far benzina, domandare la strada per Hartford. E quando la macchina riparti, Mitkey era salito clandestinamente a bordo.

Il resto non fu difficile. I calcoli dei prxliani avevano dimostrato che il punto di partenza del razzo era cinque miglia terrestri a nord-ovest di quella che appariva come una città sulle loro mappe telescopiche e grazie ai soliloqui del professore, Mitkey sapeva che quella era Hartford. E arrivò

«Salfe, professore».

Herr Professor Oberburger alzò gli occhi, sbalordito. Non c'era nessuno. «Kosa?» domandò all'aria. «Khi è?».

«Sono io, professore. Mitkey, der topo khe lei ha mantato sulla luna. Ma non ci sono antato. Infece, sono...»

«Kosa??? È impossipile. Kvalkuno fuol farmi ein skerzo. Ma... ma nessuno sa di der razzo. Kvando ha fallito, io non l'ho detto a nessuno. Io zoltanto so...»

«E io, professore».

Herr Professor sospirò pesantemente. «Ho laforato troppo. Sto difentando matto...»

«No, professore. Sono proprio io. Mitkey. Atesso posso parlare. Exsattamente kome lei».

«Dici khe puoi... non lo kredo. Perkhé non posso federti, allora? Dofe sei? Perkhé non...»

«Sono naskosto, professore, in der muro dietro der krosso buko. Folevo essere sikuro khe tutto fosse a posto prima di farmi federe. Kosì lei non si sarebbe aghitato und non mi avrebbe tirato dietro kvalkosa».

«Kome? Oh, Mitkey, se sei proprio tu e se io non soghno o non sto ammattendo... Oh, Mitkey, kome puoi penzare khe ti farei una kosa zimile?».

«D'akkordo, professore».

Mitkey uscì dal buco, e il professore lo guardò e si strofinò gli occhi, lo guardò di nuovo e si strofinò gli occhi e...

«Sono pazzo», disse alla fine. «Lui porta der kalzonzini rossi und der guanti... Non è possibile. Sono pazzo».

«No, professore. Mi askolti, le rakkonterò tutto».

E Mitkey raccontò.

«Sì, professore, la kapisko. Lei penza khe una razza intellighente di topi und una razza intellighente di uomini non possono koesistere fianko a fianko. Ma non sarebbero fianko a fianko: kome ho detto, c'è zoltanto pokhissima gente in der pikkolo kontinente di Australia. Und kosterebbe molto poko riportare via tutti kvanti und konseghnare der kontinente a noi topi. Noi lo khiameremmo Topalia inveze di Australia, und chiameremmo der kapitale Dissney inveze di Sydney, in onore di...»

«Ma, Mitkey...»

«Ma, professore, penzi a kvello che noi offriamo in cambio di kvel kontinente. Tutti i topi andrebbero là. Ne zivilizziamo alkuni und kvelli ci aiutano a premerne altri und a portarli sotto la makkhina di derraggio rosso, und ghli altri ci aiutano a catturarne ankora und a kostruire altre makkhine und sarà kome l'effetto di ein valangha khe rotola giù da ein kollina. Und noi firmeremo ein patto di non aggressione mitt umani und resteremo in Topalia und coltiferemo la terra per rikavare il cibo und...»

«Ma, Mitkey...»

«Und pensi a kvello khe offriamo in kambio, Herr Professor! Extermineremo i fostri peggiori nemizi... der ratti. Non piazziono neppure a noi. Und ein battaglione di mille topi, armati mitt maskhere antigas und pikkole bombe a gas, potrebbero entrare in oghni tana per exterminare oghni ratto in ein città in ein giorno o due. In der mondo intero, potremmo exterminare oghni ratto in ein anno, und nel contempo potremmo katturare und zivilizzare oghni topo und spedirlo in Topalia und...»

«Ma, Mitkey...»

«Kosa, professore?».

«Funzionerebbe, ma non funzionerebbe. Voi potreste exterminare der ratti, si. Ma kvanto tempo passerebbe prima che i konflitti d'interesse spingessero der topi a zerkare di exterminare der umani o der umani a zerkare di exterminare der...»

«Non oserebbero, professore! Noi potremmo kostruire armi khe...»

«Kapisci, Mitkey?».

«Ma non suzzederebbe. Se ghli uomini rispetteranno i nostri diritti, noi...»

Herr Professor sospirò.

«Io... io ti farò da intermetiario, Mitkey, und exporrò la tua proposta, und... Zerto, è vero che sparazzarci dei ratti sarebbe un krande bene per tutta l'umanità. Ma...»

«Grazie, professore».

«A proposito, Mitkey, io ho kvi Minnie. Tua moghlie, immagino khe sia, a meno khe ci fossero altri topi. È in der altra stanza. L'ho messa lì poko prima khe tu arrifassi, perkhé stesse al buio e potesse dormire. Fuoi federla?».

«Moghlie?» disse Mitkey. Era passato tanto tempo che aveva dimenticato la famiglia abbandonata per forza. Il ricordo riaffiorò lentamente.

«Bene», disse. «Uhmm... sì. La prenteremo und io kostruirò in fretta ein pikkolo proiettore X-19 und... Sì, sarà di aiuto per lei in der negoziati mitt der goferni, se saremo parekkhi, kosì potranno federe che io non sono zoltanto un fenomeno fivente come penzerebbero altrimenti».

 

Non fu una cosa voluta. Non poteva esserlo, perché il professore non sapeva che Klarloth aveva avvertito Mitkey di evitare imprudenze con l'elettricità... «Der nuova disposizione molekolare del tuo zentro zerebrale... è instapile und...»

E il professore era ancora nella stanza illuminata quando Mitkey corse in quella buia, dove Minnie stava nella sua gabbia senza sbarre. Lei dormiva, e nel vederla... Il ricordo dei tempi andati ritornò in un lampo, e di colpo Mitkey comprese quanto era stato solo.

«Minnie!» chiamò, dimenticando che lei non poteva capire.

E salì sull'asse dove stava lei. «Squii!!». La leggera corrente elettrica tra le due striscioline metalliche lo colpi.

Per un po' vi fu silenzio.

Poi... «Mitkey», chiamò Herr Professor. «Torna indietro und diskuteremo kvesta...»

Varcò la soglia e li vide, nella luce grigia dell'alba: due topolini grigi rannicchiati, felici, l'uno accanto all'altro. Non riuscì a distinguerli perché i denti di Mitkey avevano lacerato gli indumenti rossi e gialli che all'improvviso gli erano apparsi strani, soffocanti, fastidiosi.

«Kosa è suzzesso?» chiese il professor Oberburger. Poi ricordò la corrente, e comprese.

«Mitkey! Non puoi più parlare? Der...»

Silenzio.

Poi il professore sorrise. «Mitkey», disse, «mio pikkolo topo stellare. Kredo khe atesso sarai più felize».

Li guardò per un momento, affettuosamente, poi tese la mano e fece scattare l'interruttore per interrompere la barriera elettrica. Naturalmente, non sapevano di essere liberi, ma quando il professore li prese e li posò con delicatezza sul pavimento, uno corse immediatamente verso il buco nella parete. L'altro lo seguì, ma si voltò a guardare indietro... c'era ancora una traccia di perplessità in quegli occhietti neri, una perplessità che si dileguò.

«Addio, Mitkey. Sarai più felize kosì. Und der formaggio non ti mankherà mai».

«Squiik», disse il topolino grigio, e s'infilò nel buco.

Forse voleva dire «Addio».

 

Le ali della notte

The Wings of the Night

di Lester del Rey

Astounding , marzo

 

Lester del Rey continuò (vedere i volumi 1 , 2 e 3 di questa serie) a produrre straordinari testi di fantascienza durante l'inizio degli Anni Quaranta, e il 1942 fu contrassegnato dal classico Nervi (pure incluso nel presente volume). Quel racconto mise in ombra tutto ciò che del Rey scrìsse nel 1942, ma Le ali della notte merita un'attenzione più grande di quella che abbia ricevuto... contiene tutto l'idealismo e tutto lo spirito di tolleranza della migliore fantascienza di quel periodo, ed è per giunta una storia molto avvincente. Se Lester del Rey avesse pubblicato soltanto questo racconto nel 1942, sarebbe stato comunque per lui un anno memorabile.

 

(Io e Lester giochiamo a un gioco che dura, più o meno, da quarant'anni. Le regole sono semplicissime. Se uno dei due fa un'affermazione, l'altro lo contraddice. Per ogni contraddizione, la risposta appropriata è un insulto, che deve essere ricambiato con gli interessi senza il minimo indugio. Potrebbe sembrare che in pochi secondi questo debba condurre a un'esplosione nucleare, ma ciò non avviene mai. C'è un accordo preciso, grazie al quale il gioco può essere giocato solo in presenza d'altri (le nostre mogli, soprattutto) che ci fermano al quinto scambio di invettive. Recentemente, ho notato, hanno incominciato a fermarci non appena uno dei due dice qualcosa e l'altro apre la bocca. Stentiamo moltissimo a convincere la gente che in realtà siamo ottimi amici e che la nostra conversazione è sempre gentile e affettuosa (quando siamo soli). - I.A.)

 

«Accidenti a tutti i marziani!» la bocca sottile di Fats Welch sputò quelle parole con il risentimento d'un componente d'una razza superiore gravemente offeso. «Eccoci qui, con il più bel carico ad alto contenuto di iridio che sia mai arrivato dagli asteroidi, e siamo appena arrivati alla luna, e quell'iniettore ricomincia a dare i numeri. Se mi capiterà di rivedere quel marziano bulboso...»

«Già». Slim Lane allungò dietro di sé la destra, cercando a tentoni la chiave inglese a impugnatura flessibile, la trovò e cominciò a insinuarsi borbottando nel caos dei macchinari. «Già. lo so. Lo ridurrai a polpette. Hai mai pensato che forse i guai te li sei andato a cercare? Che forse i marziani sono persone, dopotutto? Lyro Bmachis ti aveva detto che ci sarebbero voluti due giorni per fare la revisione dell'attacco del comando dell'iniettore, e tu gli sei saltato addosso, hai detto che i suoi antenati erano luridi cani e gli hai dato otto ore di tempo per finire le riparazioni. E adesso pretendi che quel lavoro fatto in fretta e furia e per forza sia un gioiello di perfezione... Oh, piantala. Fats, e passami il cacciavite».

A che serviva? Ne aveva discusso e ridiscusso con Fats già una dozzina di volte, ed era stato sempre inutile. Fats era in gamba, con i razzi. ma non riusciva a usare l'immaginazione quanto bastava per dimenticare le fesserie che l'Impero della Ricostruzione sfornava sul Destino dell'Uomo e il Disegno della Provvidenza, secondo il quale gli umani erano stati creati per sfruttare tutte le altre razze. Non che sarebbe servito molto a Fats, se anche ci fosse riuscito. Slim sapeva cosa valeva l'idealismo... non molto di più.

Lui era uscito dall'università con una grave intossicazione da idealismo e un patrimonio ereditato che sarebbe bastato per tre uomini, e in più il vecchio spirito dei crociati. Aveva scritto e pubblicato libri, tenuto discorsi, interrogato autorità, ed era stato chiamato in termini tutt'altro che complimentosi. Adesso, per vivere, trasportava merci da Marte alla Terra, ed era proprietario del venticinque per cento di un mercantile spaziale malconcio. E Fats, che era partito come pulitore di tubi senza l'aiuto degli ideali, era il proprietario dell'altro settantacinque per cento.

Fats lo guardò uscire dalla stiva. «Allora?».

«Niente. Non posso ripararlo... non conosco abbastanza l'elettronica. C'è un guasto nei relais che regolano l'intervallo di tempo, ma gli indicatori non mostrano dov'è, e io non ho nessuna voglia di tentare esperimenti, qua fuori».

«Ce la faremo ad arrivare sulla Terra... forse?».

Slim scrollò la testa. «Ne dubito, Fats. È meglio scendere sulla Luna, da qualche parte, se ce la fai ad arrivare fin li. Allora forse riusciremo a scoprire il guasto prima di esaurire l'aria».

Fats l'aveva già capito e stava frenando, lottando contro il palpito spasmodico dei motori e imprecando contro gli effetti della gravità lunare che si facevano sentire, per quanto fossero deboli. Ma gli schermi mostravano che stava avanzando verso il punto che aveva scelto... una piccola pianura piatta con una zona centrale che sembrava eccezionalmente sgombra di detriti e di crateri.

«Se almeno avessero messo una stazione d'emergenza, quassù», borbottò.

«Una volta c'era», disse Slim. «Ma nessuno va mai sulla Luna, e le navi passeggeri non hanno nessun motivo di atterrarci. Consumano meno combustibile planando sulle alette attraverso l'atmosfera terrestre che scendendo qui con i retrorazzi. E del resto, i mercantili come il nostro non contano. È strano com'è piatto e regolare quel posto: non possiamo essere a più di un miglio d'altitudine, e non vedo neppure il segno d'una meteora».

«Allora la fortuna è dalla nostra. Mi dispiacerebbe incappare in un piccolo cratere e strappar vìa un tubo o sfondare lo scafo». Fats diede un'occhiata al radioaltimetro e all'indicatore di caduta. «Sarà una botta piuttosto forte. Se... Ehi, cosa diavolo...?».

Lo sguardo di Slim puntò sullo schermo giusto in tempo per vedere la pianura dividersi in due e schiudersi sotto di loro proprio quando sembrava che stessero per toccarla: e poi scesero lentamente in un cratere che sembrava senza fondo e si allargava ancora; all'improvviso, il rombo dei tubi aumentò. Sopra di loro, gli schermi mostrarono due paratie scorrevoli che si richiudevano. Fissò gli occhi sull'altimetro, incapace di credere e di dubitare.

«Siamo centosessanta miglia sotto la superficie, e in trappola! Il rombo dei tubi di scarico indica che c'è un po' d'aria, almeno. Questa trappola pazzesca non può esistere. Non ha ragione di esistere».

«E che importanza ha, in questo momento? Non possiamo risalire attraverso quei portelloni scorrevoli, quindi scendiamo e vediamo di che si tratta, direi. Accidenti, è impossibile prevedere che campo di atterraggio troveremo quando arriveremo sul fondo». La scarsa immaginazione di Fats tornava utile, in casi del genere. Stava manovrando la discesa nell'enorme cratere come se stesse per atterrare nel porto di York, troppo preso dall'irregolarità del motore per preoccuparsi di quello che avrebbe potuto trovare sul fondo. Slim lo guardò meravigliato, poi tornò a fissare gli schermi, cercando qualche indizio circa la ragione dell'esistenza di quella trappola artificiale.

 

Lhin raspò pigramente nel mucchio di scorie, estrasse un pezzetto di pietra arrossata che era sfuggita al suo sguardo la prima volta e si alzò lentamente. I Grandi erano stati buoni con lui, e gli avevano mandato quella frana proprio quando i vecchi giacimenti si stavano esaurendo per gli scavi ripetuti. Le narici sensibilissime gli dissero che c'erano magnesio, sostanze ferrose e zolfo in abbondanza, tutta roba utilissima. Certo, lui aveva sperato che ci fosse un po' di rame, magari quanto la punta d'un dito: ma sembrava che non ce ne fosse traccia. E senza rame...

Scacciò quel pensiero come aveva fatto altre mille volte, e prese il rozzo canestro, ormai pieno per metà di rocce frantumate e per metà dei licheni che crescevano in quella parte del cratere. Con una mano stritolò un frammento di pietra marcia insieme a qualche pezzetto di lichene e si buttò in bocca il miscuglio. Fossero ringraziati i Grandi che avevano mandato la frana! Il sapore piacevole del magnesio gli solleticava la lingua e i licheni avevano il ricco sapore della nuova abbondanza del suolo circostante. Adesso, se avesse trovato una traccia di rame, non avrebbe più avuto nulla da desiderare.

Agitando malinconicamente la coda agile, Lhin grugni e si girò per avviarsi verso la sua grotta, lanciando un'occhiata pigra verso il tetto della caverna. Lassù, a molte miglia di distanza, un bagliore scendeva, diffondendosi via via che attraversava gli strati d'aria, e indicava che il lungo giorno lunare si avvicinava al meriggio, quando il sole sarebbe sceso a perpendicolo attraverso la piccola entrata. Era troppo alta per vederla, ma Lhin sapeva dell'esistenza dell'apertura coperta, dove finivano le pareti dell'enorme valle e incominciava il tetto. Durante tutti i millenni della lenta sconfitta della sua razza, il grande tetto era rimasto là, senza altro sostegno che le pareti che si estendevano in un cerchio di circa cinquanta miglia di diametro, più forte e duraturo del cratere stesso: l'unico monumento superstite della passata grandezza del suo popolo.

Lhin sapeva, senza dover riflettere, che il tetto era artificiale, costruito quando l'ultima aria ormai rarefatta stava abbandonando la luna, e la sua razza aveva cercato un ultimo rifugio lì, nel cratere più profondo, dove l'ossigeno poteva venire trattenuto, in modo che non sfuggisse. Vagamente, si rendeva conto dei millenni che erano trascorsi da allora e si stupiva della stabilità di quel tetto a cupola che resisteva al tempo.

Una volta, come testimoniava lo spazio intorno a lui, la sua era stata una razza potente. Ma il tempo aveva fatto sentire i suoi effetti, invecchiando la razza come aveva invecchiato gli individui, cancellando il vigore della loro gioventù e insinuando in loro i lenti tentacoli della disperazione. A che serviva esistere, rinchiusi in un'unica, piccola colonia, lontano dal loro mondo? Erano diminuiti di numero, e in parte le loro doti li avevano abbandonati. Le loro macchine s'erano sgretolate ed erano sparite, senza venire rimpiazzate, e loro erano ridiventati primitivi, ed estraevano le rocce dalle pareti del cratere e i licheni che avevano coltivato per trarre energia dal calore e dalla fosforescenza radioattiva della valle anziché dalla luce del sole. Ogni anno, i giovani erano sempre meno numerosi, e quelli fertili rappresentavano una percentuale sempre più ridotta: così, di un milione che erano stati in origine, s'erano ridotti a poche migliaia, e poi a qualche centinaio, e infine a pochi individui decaduti.

Soltanto allora s'erano resi conto del pericolo dell'estinzione: ma era troppo tardi. C'erano stati tre anziani quando Lhin era cresciuto: il suo seme era stato l'unico fertile. Adesso gli anziani se ne erano andati da molti anni, e Lhin aveva tutto per sé l'intero cratere. E la vita era una lunga successione di sonni e di ricerche di cibo, alleviata soltanto dagli stessi pensieri, mentre il suo mondo si volgeva verso la luce e poi verso la tenebra. La monotonia aveva ucciso lentamente la sua razza: ma adesso che aveva quasi compiuto la sua opera, era finita. Lhin era contento di quel genere di vita: si era assuefatto alla noia, e ormai era immunizzato.

I suoi piedi si erano mossi lentamente al ritmo dei suoi pensieri, e adesso era fuori dalla valle vera e propria, presso la porta del rifugio scavato nella parete di roccia che aveva scelto tra i tanti per farsene una casa. Masticò un'altra boccata di roccia e di licheni e lasciò che la luce diffusa del sole splendesse su di lui per qualche altro minuto; poi entrò nella grotta. Non aveva bisogno d'illuminazione, perché le pareti rocciose tutto intorno erano state rese radioattive durante la lontana giovinezza della sua razza, e i suoi occhi erano adattati a una vastissima gamma di condizioni della luce. Attraversò in fretta la prima camera, dove c'erano il suo letto di licheni intrecciati e pochi, semplici arredi, ed entrò in quella che era una combinazione tra incubatrice e un'officina. Una speranza illogica ma onnipresente lo attirò ancora una volta verso l'angolo più lontano.

Ma, come sempre, era irragionevole. La cassetta di terra ricca, finissima e scrupolosamente innaffiata, era priva di vita. Non c'era neppure un piccolo germoglio rosso a destare in lui una speranza per il futuro. Il suo seme era sterile, e si avvicinava il momento in cui tutta la vita si sarebbe estinta. Amaramente, voltò le spalle all'incubatrice.

Mancava così poco, eppure così tanto! Poche centinaia di molecole di sali di rame da ingerire, e i suoi semi sarebbero diventati fertili; oppure, le stesse molecole di rame aggiunte all'acqua avrebbero permesso ai semi già piantati di crescere, diventando uomini-e-donne vigorosi. Ogni esponente della razza di Lhin aveva elementi maschili e femminili, e poteva far crescere, da solo o in collaborazione con un altro, i semi che diventavano i loro figli. Finché viveva uno solo della razza, cento piccoli potevano venire allevati ogni anno nel suolo scrupolosamente curato... purché fosse possibile produrre l'ormone vitale contenente rame.

Ma sembrava che non fosse impossibile. Lhin esaminò l'apparecchio laboriosamente formato di ciotole tagliate a mano e di sottili tubi, e si sentì stringere i cuori. Il fuoco lento di licheni secchi e di catrame gommoso bruciava ancora, e goccia a goccia il liquido cadeva dall'ultimo tubo in una ciotola. Ma anche in quello non c'era il minimo odore di sali di rame. Bene, aveva fatto anche quel tentativo, ed era fallito. Aveva impiegato anni per raffinare l'acqua che manteneva umido il terreno dell'incubatrice, e quell'acqua aveva contenuto quantità troppo scarse del minerale necessario alla vita. Quasi spassionatamente, ributtò nelle custodie cilindriche i rotoli di metallo perenne che contenevano la scienza della sua razza e incominciò a smontare l'attrezzatura del suo laboratorio.

Questo comportava l'altra soluzione, più difficile e piena di rischi, ma ormai necessaria. Lassù, presso il tetto, a quanto indicavano i documenti c'erano modeste quantità di rame: ma si trovavano al di sopra della concentrazione respirabile dell'aria. E questo imponeva di usare un casco e serbatoi d'aria compressa, e ramponi e grappe per superare i tratti erosi del vecchio sentiero e delle vecchie scale, e strumenti per segnalare il rame e una pompa per riempire i serbatoi. Poi lui deve portare più avanti molte bombole, lasciarle in una base e proseguire per preparare una base più avanzata, passo per passo, fino a quando la sua catena di rifornimenti fosse arrivata alla sommità. E allora, forse, avrebbe potuto trovare il rame per un nuovo inizio.

Lhin evitava di pensare al tempo necessario e alle probabilità d'insuccesso. Premette il piede sul piccolo mantice e le fiamme azzurre s'innalzarono dalla rozza forgia mentre lui prendeva i pezzi di metallo raffinato e cominciava a riscaldarli per renderli malleabili. Era quasi impossibile perfino modellarli a mano, secondo i modelli forniti dagli antichi documenti: eppure, in un modo o nell'altro, doveva farlo esattamente. La sua razza non doveva estinguersi!

Era ancora ostinatamente intento al suo lavoro, diverse ore più tardi, quando una nota acuta risuonò nella caverna. Una meteora che penetrava nei campi intorno alle paratie scorrevoli del tetto... ed era molto grande! In tutta la vita di Lhin non ce n'era mai stata una abbastanza grande per attivare gli schermi dell'allarme, e lui aveva finito per dubitare che il meccanismo funzionasse ancora, sebbene dovesse essere praticamente eterno e sfruttasse l'energia solare fino a quando il sole non fosse morto. Mentre Lhin fissava stordito la porta, la nota sibilante risuonò di nuovo.

Ora, se lui non avesse premuto la mano sulla griglia d'induttanza, sarebbero entrate in funzione le forze automatiche, che avrebbero fatto deviare la meteora lontano dal tetto. Ma Lhin non ci pensò neppure: corse a premere le dita sulla griglia. Era per questo che aveva scelto come abitazione quello che un tempo era stato l'alloggio dei Guardiani, incaricati di lasciare entrare e uscire i pochi razzi da ricognizione, nelle epoche passate. Un minuscolo bagliore indicò che la meteora era passata: e Lhin abbassò la mano, lasciando che i pannelli scorrevoli si richiudessero.

Poi attese, impaziente, che la meteora cadesse, e si portò verso l'entrata. Forse i Grandi erano generosi, ed esaudivano finalmente le sue preghiere. Poiché non poteva trovare lì neppure un po' di rame, gli inviavano un dono dallo spazio, e chissà quale quantitativo favoloso poteva contenere... forse tanto da riempiere il cavo d'una mano! Ma perché la meteora non aveva toccato il fondo? Scrutò ansiosamente il tetto, agghiacciato dal timore di essere intervenuto troppo tardi... forse le forze avevano deviato la meteora.

No, c'era un bagliore, lassù... ma sicuramente non era quello che poteva produrre una meteora di quelle dimensioni mentre fendeva l'aria! Finalmente, un sibilo acuto, pungente gli giunse alle orecchie, smorzandosi e riprendendo; e non era affatto il suono che poteva produrre logicamente una meteora. Lhin guardò più attentamente, meravigliato, e vide che stava scendendo lentamente, non in una caduta precipitosa, e che il bagliore brillava in basso, anziché svanire verso l'alto. E questo significava... poteva significare soltanto che l'oggetto era controllato da un'intelligenza! Era un razzo!

La mente di Lhin vacillò per il trauma, e nei suoi pensieri si insinuarono folli idee del ritorno dei suoi antenati, da un altro rifugio sconosciuto, d'una visita personale dei Grandi. Ma in sostanza, Lhin era rigorosamente logico e una ad una respinse quelle ipotesi. Quella macchina non poteva provenire dalla luna desolata e quindi restava soltanto il pianeta favoloso che stava sotto il suo mondo, oppure quelli che vagavano intorno al sole in altre orbite. C'erano esseri intelligenti, là?

Lhin ripensò ai documenti che aveva letto, e che erano stati scritti quando i suoi antenati avevano traversato lo spazio per raggiungere quei mondi, molto tempo prima della costruzione del rifugio. Non avevano potuto colonizzarli, a causa della gravità opprimente, ma li avevano osservati in modo dettagliato. Sul secondo pianeta c'erano soltanto cose squamose che guizzavano nell'acqua e fronde bizzarre sulla terraferma poco estesa; sul suo primario, bestie gigantesche popolavano il globo, insieme a piante radicate nel suolo. Non c'era intelligenza, su quei mondi. Ma il quarto era abitato da esseri più comprensibili; e come era avvenuto per i suoi antenati, non esisteva una divisione tra fauna e flora: entrambi i fattori erano presenti in tutto. Grumi viventi, sferici, si erano già riuniti in branchi, guidati dall'istinto ma senza mezzi di comunicazione. Eppure, tra gli altri mondi conosciuti, sembrava la fonte più probabile di un'intelligenza. Se, per qualche miracolo, il razzo veniva dal terzo mondo, Lhin poteva abbandonare ogni speranza: la sete di sangue di quel pianeta era scritta fin troppo chiaramente sui documenti, dove animali simili a montagne di carne si sbranavano tra loro su tutti i rotoli illustrati. Diviso tra il timore e l'anticipazione, Lhin sentì la nave atterrare nei pressi e si avviò in quella direzione, tenendo la coda leggermente incurvata.

Quando vide i due esseri davanti al portello aperto del veicolo, comprese che la sua previsione era errata. Erano bipedi, come lui, sebbene fossero massici e molto più grossi, e quindi dovevano venire dal terzo mondo. Esitò, osservandoli attento mentre si guardavano intorno, respirando con evidente soddisfazione l'aria che li circondava. Poi uno parlò all'altro, e la mente di Lhin fu scossa da un nuovo trauma.

L'articolazione e l'intonazione erano intelligenti, ma i suoni erano un farfugliare privo di senso. Un linguaggio... quello? Doveva esserlo, anche se le parole non avevano significato. Un momento... negli antichi documenti, Slha il Libero Pensatore aveva trattato quel tema. Aveva scritto dei tempi remotissimi in cui i lunariti non avevano un linguaggio, e aveva postulato che avevano inventato i suoni attribuendo loro significati arbitrari, e che soltanto dopo lunghi millenni d'uso quei suoni erano diventati istintivi nei piccoli appena cresciuti... aveva persino osato mettere in dubbio che i Grandi avessero ordinato il linguaggio e i significati dei suoni quale completamento inevitabile dell'intelligenza. E a quanto sembrava Slha aveva avuto ragione. Lhin emerse brancolando dalla nebbia di quella scoperta e concentrò i suoi pensieri in un raggio.

Ancora una volta fu un'esperienza traumatica. Era difficile raggiungere le loro menti: e quando trovò la chiave e si addentrò a tentoni nei loro pensieri, si accorse che quelli non potevano leggere i suoi! Eppure erano intelligenti. Ma colui sul quale erano incentrati i suoi pensieri si accorse finalmente della sua presenza, e strinse il braccio dell'altro. Le parole erano ancora crude e prive di senso, ma il significato generale pervenne al lunarita. «Fats, quello che cos'è?».

L'altro si voltò e spalancò gli occhi nel vedere avvicinarsi Lhin. «Non lo so. Sembra uno scimmiotto magro alto un metro. Credi che sia innocuo?».

«È probabile, e forse è anche intelligente. Possiamo escludere che sia stato un gruppo di profughi politici a costruire questo posto... il tipo di costruzione non è umana. Ehilà!». Quello che pensava a se stesso come Slim — Snello, anche se appariva così massiccio — si girò verso il lunarita che continuava ad avvicinarsi. «Cosa sei e chi sei?».

«Lhin», rispose lui, notando una soddisfatta soresa nella mente di Slim. «Lhin... me Lhin».

Fats grugnì. «Forse hai ragione, Slim. Sembra che ti capisca. Chissà chi è venuto qui a insegnargli l'inglese».

Lhin cercò goffamente di riferire i singoli suoni ai rispettivi significati e di imprimerseli nella memoria. «Non capisce inglese. Nessuno è venuto qui. Tu...». Rimase a corto di parole e si avvicinò di più, indicando la testa di Slim, poi la propria. Sorprendentemente, Slim comprese.

«Vuol dire che sa quello che stiamo pensando, credo. Telepatia».

«Sì? I marziani dicono che lo fanno tra di loro, ma non ne ho mai visto uno che leggesse la mente di un umano. Dicono che non ci apriamo abbastanza. Forse questo scimmiotto, Ream, mente».

«Ne dubito. Dai un'altra occhiata dal contatore di radioattività sul rilevatore di vivibilità... se gli uomini fossero venuti qui, non sarebbero tornati a casa senza dare il lieto annuncio. Del resto, non si chiama Ream... Lean si avvicina di più al suono che ha emesso, anche se non riusciremo mai a riprodurlo esattamente». Tentò di trasmettere un pensiero a Lhin, che si affrettò a pronunciare di nuovo il suo nome. «Visto? Il suo suono liquido non è una erre... è un arresto glottale. E la consonante finale è una labiale, anche se suona un po' come la nostra dentale. Noi non possiamo emettere suoni simili. Chissà fino a che punto è intelligente».

Slim rientrò nella nave prima che Lhin riuscisse a escogitare una risposta, e ne uscì dopo un attimo portando alcuni piccoli oggetti sotto il braccio. «Il codice dell'inglese spaziale», spiegò a Fats. «Lo stesso che hanno usato per insegnare l'inglese ai marziani un secolo fa».

Poi, rivolgendosi a Lhin: «Qui ci sono le seicento parole più usate della nostra lingua, organizzate, così potrai assimilarle senza doverle imparare poco per volta. Tu guarda le illustrazioni mentre io pronuncio e penso la parola. Dunque. Uno... uno; due... due. Capito?».

Fats restò a guardarli per un po', divertendosi, poi si stancò. «Bene, Slim, tu coccolati pure l'indigeno e vedi cosa riesci a imparare. Io vado a esaminare le pareti e a studiare quella sostanza radioattiva, fino a quando sarai pronto per incominciare le riparazioni. Se almeno le radio di questi mercantili non avessero una portata tanto limitata e riuscissimo a far arrivare a destinazione un messaggio!».

Fats si allontanò, ma Lhin e Slim quasi non se ne accorsero. Erano impegnati nel difficile compito di organizzare un sistema di comunicazione, quasi senza una base comune; e sarebbe stato impossibile, in poche ore. Eppure, sebbene le associazioni verbali e i suoni fossero strani, e sebbene la loro organizzazione in gruppi significativi fosse difficile, dopotutto era pur sempre un linguaggio. E Lhin era cresciuto con un linguaggio estremamente complesso che per lui era naturale quanto respirare. Contraeva le labbra pronunciando i suoni e s'imprimeva i significati nella mente, uno ad uno, in modo incancellabile.

Alla fine, Fats li trovò nella grotta di Lhin, rintracciandoli grazie al suono delle loro voci, e sedette a osservarli come un adulto che guardasse un bambino intento a giocare con un cane. Non aveva nulla contro Lhin, ma non poteva neppure considerare il lunarita come qualcosa di più di un animale intelligente, come i marziani o i primitivi di Venere: se Slim si divertiva a trattarli da eguali, facesse pure a modo suo, per il momento.

Lhin era vagamente conscio di quei pensieri e di altri ancora più inquietanti, ma era troppo assorto in quell'esperienza nuova, comunicare con una mente viva, dopo essere rimasto solo per quasi un secolo. E c'erano cose più importanti. Agitò la coda, allargò le braccia e lottò con i suoni terrestri mentre Slim si sforzava di seguirlo.

Finalmente l'uomo della Terra annuì. «Credo di aver capito. Sono morti tutti, tranne te, e non ti va l'idea di finire in un vicolo cieco. Uhm. Non andrebbe neanche a me. Quindi adesso speri che i tuoi Grandi — noi li chiamiamo Dio — ci abbiano inviati qui per sistemare tutto. Come?».

Lhin raggiò: la sua faccia si contrasse in una smorfia grinzosa di piacere, prima di accorgersi che Slim aveva interpretato erroneamente quel gesto. Slim aveva buone intenzioni. Quando avesse saputo che cosa occorreva, forse gli avrebbe addirittura regalato il rame, perché i vecchi documenti dimostravano che il terzo mondo era quello che aveva la maggiore ricchezza di minerali.

«È necessario il Nra. La vita nasce facendo di molte cose semplici una cosa non semplice... aria, acqua, sostanze, cose da mangiare, tutto questo ce l'ho, quindi vivo. Ma per incominciare una nuova vita, è necessario il Nra. È quello che fa incominciare le cose. Il seme non ha vita... con il Nra vive. Ma non conosco la parola».

Lhin attese, impaziente, mentre Slim rifletteva. «Una specie di vitamina o di ormone, qualcosa come la vitamina E6, eh? Forse potremmo produrla, ma...».

Lhin annuì. I Grandi, sicuramente, erano generosi. I suoi cuori si riscaldarono al pensiero di molti semi accuratamente avvolti e conservati che lui avrebbe potuto far crescere, con il rame necessario. E l'uomo della Terra era disposto ad aiutarlo. Ancora un po', e tutto sarebbe andato per il meglio.

«Non c'è bisogno di produrla», pigolò, felice. «Sostanza semplice. Il seme posso farlo, è in noi. Ma per farlo abbiamo bisogno di Nra. Vedi». Estrasse una manciata di roccia dal canestro, la masticò scrupolosamente e indicò che veniva trasformata dentro di lui.

Fats divenne più attento. «Rifallo un po', scimmiotto!». Lhin obbedì, notando incuriosito che quelli, apparentemente, non mangiavano nulla che non fosse stato preparato da altri esseri viventi. «Accidenti. Rocce... semplici rocce. E lui le mangia. Credi che abbia il gozzo come un uccello, Slim?».

«Le digerisce. Se avessi letto di quegli esseri per metà pianta e per metà animali da cui sono discesi i marziani, capiresti com'è il suo metabolismo. Ascolta, Lhin. Immagino che tu intenda un elemento. Sodio, calcio, cloro? No, credo che li abbia già tutti. Iodio, forse? Uhm». Elencò una ventina di elementi che pensava avessero qualcosa a che fare con la vita, ma il rame non era tra quelli, per puro caso, e una lenta paura si insinuò nei pensieri del lunarita. Quella strana barriera nella comunicazione... avrebbe rovinato tutto?

Cercò brancolando la soluzione... e si rilassò. Certo, sebbene non esistesse una parola comune, l'elemento aveva pur sempre un'unica struttura. Sfogliò in fretta le pagine del libro, ne trovò una bianca e tese la mano per chiedere la matita al terrestre. Poi, mentre Slim e Fats lo guardavano incuriositi, cominciò a schizzare la struttura atomica del rame così come l'avevano riconosciuta i grandi fisici della sua razza.

Ma per loro non significava nulla! Slim gli rese il foglio, scuotendo la testa. «Amico, se ho ragione di supporre che questa sia la struttura di un atomo, sulla Terra abbiamo ancora parecchio da imparare. Fiuuu!».

Fats torse le labbra. «Se quello è un atomo, io sono un uovo fritto. Vieni, Slim, è ora di dormire e tu hai sprecato una mezza giornata. E poi, voglio parlare con te di questa sostanza radioattiva. È così potente che ci cuocerebbe in mezz'ora se non avessimo questi annullatori portatili... eppure sembra che lo scimmiotto ci sguazzi. Ho un'idea».

Slim si scosse dai suoi pensieri e diede un'occhiata all'orologio. «Accidenti! Senti, Lhin, non avvilirti. Ne riparleremo domani. Ma Fats ha ragione. Adesso dobbiamo dormire. Ci vediamo, amico».

Lhin comunicò un saluto temporaneo nella sua lingua e si accasciò sul rozzo letto. Sentì Fats, là fuori, illustrare un piano per estrarre le sostanze radioattive con il suo aiuto, e sentì anche i toni di protesta di Slim. Ma non vi prestò attenzione. La struttura atomica che aveva disegnato era esatta; ma i terrestri avevano ancora una scienza primitiva, e le loro menti conoscevano troppo poco l'argomento per afferrare le sue illustrazioni.

Formule chimiche? Reazioni che ne avrebbero eliminate altre, una ad una. Sì, forse, se fossero stati due chimici, ma persino Slim ne sapeva troppo poco. Eppure, ovviamente, a meno che sulla Terra il rame fosse assente, doveva esistere una soluzione. Senza dubbio i Grandi che quelli chiamavano Dio non avrebbero risposto con una beffa alle devote preghiere di intere generazioni! C'era una soluzione: e mentre quelli dormivano lui l'avrebbe trovata, a costo di dover frugare in tutti i rotoli dei documenti.

Diverse ore più tardi. Lhin attraversò la pianura diretto verso la nave, pieno di una nuova speranza. La soluzione, una volta trovata, era semplice. Tutti gli elementi si dividevano in famiglie e classi. Slim aveva menzionato il sodio, e il sodio era relato al rame nelle tavole più primitive, come quelle che potevano usare i terrestri. E soprattutto, il suo numero atomico era ventinove, secondo una teoria abbastanza elementare per qualunque razza in grado di costruire razzi.

I portelli erano aperti, e Lhin li varcò entrambi. I pensieri incerti e semiformati degli uomini lo guidavano infallibilmente verso di loro. Quando fu alla loro presenza si fermò, interrogandosi sulle loro abitudini. Aveva già imparato che quel che era vero per la sua gente non era inevitabilmente valido per loro, e forse non avrebbero approvato che li svegliasse mentre dormivano. Finalmente, combattuto tra la cortesia e l'impazienza, si acquattò sul pavimento metallico, stringendo il rotolo ed esaminando con l'olfatto i metalli che gli stavano intorno. Il rame non c'era: ma lui non si era aspettato quell'elemento tanto raro, sebbene ve ne fossero altri che non riusciva assolutamente a riconoscere e che, con ogni probabilità, erano quelli pesanti, quasi del tutto assenti sulla Luna.

Fats gorgogliò, mosse le braccia, sbadigliò e si sollevò a sedere, ancora semiaddormcntato. I suoi pensieri erano pieni di una persona terrestre dell'elemento femminile che, come aveva notato Lhin, in quei due mancava, e di quello che avrebbe fatto «quando fosse diventato ricco». Lhin seguì affascinato quelle immagini mentali, fino a quando si accorse che sarebbe stato meglio non curiosare, poiché si trattava di cose ovviamente segrete. Ritrasse la mente proprio mentre l'uomo notava la sua presenza.

Fats non era mai di buon umore quando si svegliava. Balzò in piedi con un muggito e afferrò qualcosa. «Spione d'uno scimmiotto! Volevi tagliarci la...».

Lhin squittì ed evitò il colpo che l'avrebbe trasformato in una poltiglia informe. Non sapeva che cosa avesse fatto di male, ma la prudenza gli suggeriva di andarsene. Non conosceva la paura fisica... troppe generazioni erano cresciute e morte senza averne bisogno. Ma era un trauma l'idea che quegli esseri fossero veramente disposti a uccidere un'altra persona intelligente. La vita valeva così poco, sulla Terra?

«Ehi! Ehi, Fats. fermati!» Slim s'era svegliato, e una rapida occhiata rivelò a Lhin che aveva afferrato le braccia dell'altro. «Piantala, eh? Che cosa succede?».

Ma ormai Fats era completamente sveglio e sì stava calmando. Lasciò cadere la sbarra metallica e sogghignò. «Non so. Probabilmente lui non aveva cattive intenzioni, ma stava lì seduto con quel coso metallico nelle mani e mi fissava, e così ho pensato che volesse tagliarmi la gola o qualcosa del genere. Adesso e tutto a posto. Torna indietro, scimmiotto. È tutto a posto».

Slim lasciò andare il compagno e rivolse un cenno a Lhin. «Sicuro, torna indietro, amico. Fats ha idee strane sui non umani, ma nel complesso non è cattivo. Se fai il bravo cagnolino non ti prenderà a calci... magari ti gratterà anche le orecchie».

«Scemenze». Fats sogghignava, di nuovo di buonumore. Sapeva che Slim l'aveva detto per punzecchiarlo, ma non se la prendeva: cosa c'era di male, se trattava i marziani e gli scimmiotti come meritavano? «Cos'hai lì, scimmiotto? Altri disegni che non significano niente?».

Lhin annuì, imitando il gesto d'assenso dei terrestri e porse il rotolo a Slim: l'atteggiamento di Fats non era più ostile, ma lui era un'incognita, e Slim sembrava il più interessato. «Disegni che significano molto, spero. Ecco il Nra, ventinove, sotto il sodio».

«Una tavola periodica», disse Slim a Fats. «O almeno lo sembra. Passami il manuale, per favore. Uhm. Sotto il sodio, numero ventinove. Sodio, potassio, rame. È il ventinove, infatti. È questo, Lhin?».

Gli occhi di Lhin brillavano di trionfo. Grazie ai Grandi! «Sì, è il rame. Forse ne avete un po'? Magari anche un grammo?».

«Mille grammi, se vuoi. Secondo i tuoi criteri, siamo pieni di questa roba. Serviti pure».

Fats s'intromise. «Sicuro, scimmiotto, noi abbiamo il rame, se è questo che cerchi. Come lo pagherai?».

«Pagare?».

«Sicuro, cosa darai in cambio? Noi ti aiutiamo; tu aiuti noi. È giusto, no?».

Lhin non ci aveva pensato; ma gli sembrava giusto. Però, che cosa aveva da dare? E poi comprese cosa aveva in mente l'uomo. In cambio del rame, lui doveva lavorare, estrarre e purificare le sostanze radioattive che davano calore e luce e vita al cratere, create così faticosamente quando il rifugio era stato costruito e trasformato per sopperire alle esigenze di quelli destinati a viverci. E dopo di lui, i suoi figli e i loro figli avrebbero dovuto scavare e faticare per la Terra, e sarebbero stati pagati con il rame appena sufficiente per fornire alla Terra altri operai. La mente di Fats si riempì nuovamente dei sogni dell'altra creatura terrestre. Per quello, avrebbe condannato una razza a una vita priva di orgoglio, di speranza, di successi. Lhin non riuscì a comprendere. C'erano tanti esseri come quelli sulla Terra... perché doveva essere necessaria la sua schiavitù?

E la schiavitù non era tutto. La fine sarebbe stata certa in un modo come nell'altro, quando la Terra si fosse presa le sostanze radioattive o quando il quantitativo, lì, fosse sceso al di sotto del livello vitale, anche se la riserva era cospicua. Lhin rabbrividì, di fronte alla scelta che gli veniva imposta.

Slim gli posò la mano sulla spalla. «Fats ha le idee un po' sbagliate, Lhin. No, Fats?».

C'era qualcosa nella mano di Slim, qualcosa che Lhin riconosceva vagamente come un'arma. L'altro si agitò, ma non smise di sogghignare.

«Tu sei picchiato, Slim, sei scemo. Magari credi davvero in queste fesserie sull'eguaglianza delle altre razze, ma non arriverai ad ammazzarmi. Io non cedo... non ho intenzione di regalare il mio rame».

All'improvviso anche Slim sogghignò e mise via l'arma. «D'accordo, non regalarlo. Lhin può prendersi la mia parte. Ce n'è in abbondanza, sulla nave, in forme di cui possiamo fare a meno; e non dimenticare che io sono proprietario per il venticinque per cento».

I pensieri di Fats non contenevano una risposta. Rimuginò lentamente e alzò lo spalle. Slim aveva ragione, e della sua parte poteva farsene quel che voleva. Comunque... «D'accordo. Fai come credi. Ti aiuterò a tirarlo fuori, dovunque sia. Cosa ne dici di quei cavi nel ripostiglio dei motori?».

Lhin rimase a guardare in silenzio mentre i due terrestri aprivano uno sportello e vi frugavano: studiò i motori e i comandi con una metà della sua mente, mentre l'altra metà fremeva d'estasi al pensiero del rame... non una manciata, ma tutto quello che lui poteva portare, in forma pura, facilmente trasformabile in solfato digeribile grazie agli acidi che aveva già preparato in vista della possibilità di trovarlo. Entro un anno, il cratere si sarebbe ripopolato. Forse lui avrebbe lasciato tre o quattrocento figli, e ancora di più, quando quelli si sarebbero moltiplicati.

Un dettaglio del collegamento che stava studiando fece affiorare quel pensiero. Tirò Slim per i calzoni. «Quello... quello... non funziona bene, vero?».

«Uh? No, non funziona bene, amico. È quello che ci ha portati qui. Perché?».

«Allora, anche senza le sostanze radioattive, posso pagare. Lo riparerò io». Un dubbio fuggevole colpi Lhin. «Questo è pagare, non è così?».

Fats estrasse un rotolo di filo meravigliosamente profumato dall'armadietto, si asciugò il sudore e annuì. «È pagare, sicuro, ma lascia stare quei cosi. Sono già abbastanza malridotti, e forse neppure Slim ce la farà a ripararli».

«Io posso ripararli».

«Sicuro. In che scuola ti sei diplomato in elettronica? In questo rotolo ci sono sessanta metri, fanno quindici per lui. Hai intenzione di darglieli tutti, Slim?».

«Credo di sì». Slim guardava dubbiosamente Lhin, badando appena all'altro che misurava e tagliava il filo di rame. «Hai mai toccato qualcosa del genere, Lhin? Su queste navi, i comandi per l'alimentazione ionica e gli iniettori sono molto complicati. Cosa ti fa pensare che potresti riuscirci... a meno che la tua gente avesse navi come questa e tu abbia studiato i documenti».

Lhin cercò le parole, sforzandosi di spiegare. La sua gente non aveva mai avuto navi come quella... la loro scienza atomica era basata su una concezione diversa, perché l'uranio era pressoché inesistente sulla luna, e loro avevano usato un'applicazione diretta. Ma i principi gli apparivano chiari, già in base a quello che poteva vedere dall'esterno; sentiva nella mente il modo in cui funzionava.

«Io sento. Potevo ripararlo anche subito dopo cresciuto. È il modo che penso, non il modo che imparo, anche se ho letto tutti i documenti. Per trecento milioni di anni la mia gente l'ha imparato... e adesso io lo sento».

«Trecento milioni di anni! Ho capito che la tua razza era antica quando mi hai detto che appena nato sapevi parlare e leggere, ma... per tutti i dinosauri!».

«La mia gente li aveva visti sul vostro mondo, sì», gli assicurò Lhin solennemente. «Allora, devo riparare?»

Slim scrollò la testa, confuso, e gli porse una cassetta di utensili. «Trecento milioni di anni, Fats, e durante l'intero periodo sono sempre stati più progrediti di quanto siamo noi adesso. Prova a pensarci. Noi eravano esserini che campavano d'uova di dinosauro, mentre loro volavano da un pianeta all'altro... ma non credo che potessero fermarsi a lungo: per loro, la gravità della Terra era sei volte più del normale. E adesso, solo perché sono stati costretti a restare su un mondo leggero e la perdita dell'aria li ha forzati a rifugiarsi qui. dove le cose non erano normali, c'è rimasto soltanto Lhin».

«Già, e questo fa di lui un meccanico?».

«È l'istinto. Pensa agli istinti acquisiti dagli animali durante lo stesso periodo di tempo. Lui ha l'istinto per i macchinari: probabilmente non sa tutto, ma sente istintivamente come dovrebbe funzionare qualcosa. Aggiungi la collezione dei testi scientifici che mi ha mostrato e tutte le letture che ha probabilmente fatto, e non deve esserci quasi nulla che lui non possa fare a una macchina».

Era inutile discutere, concluse Fats, mentre stava a guardare. O lo scimmiotto effettuava la riparazione, o loro non sarebbero mai ripartiti. Lhin aveva preso le pinze e aveva staccato completamente la scatola dei comandi; adesso lo stava smontando, pezzo per pezzo.

Con bizzarra destrezza, sganciava i fili, estraeva le valvole, staccava i trasformatori.

A lui sembrava piuttosto semplice. Loro avevano convertito l'energia del combustibile atomico, e usavano certe forze per ionizzare la materia, controllavano la ionizzazione, immettevano gli ioni nei tubi dei razzi, e li facevano passare forzatamente ad alta velocità attraverso le spirali. Un problema elementare d'elettronica applicata per regolare il flusso e controllare le forze della ionizzazione.

Con le mani minute e svelte, Lhin piegò i fili formando avvolgimenti, sistemò in serie altre bobine e collegò una valvola alla combinazione. Intorno a quel complesso presero forma altri avvolgimenti e altre valvole, e poi un lungo alimentatore venne collegato al tubo che portava il composto alla ionizzazione, e altri tubi alla presa dell'energia. Gli iniettori che regolavano l'alimentazione degli ioni erano inutilmente complicati, ma Lhin non li toccò, dato che funzionavano anche così. Aveva impiegato meno di quindici minuti.

«Ora funzionerà. Ma siate prudenti quando lo proverete per la prima volta. Adesso fa funzionare tutto, non poco come prima».

Slim ispezionò il risultato. «Tutto qui? E quel mucchio di roba che non hai utilizzato?».

«Non era necessaria. Era molto mediocre. Adesso va bene». Come meglio poteva, spiegò a Slim cosa sarebbe accaduto quando fosse entrato in funzione, adesso; prima solo un tecnico esperto avrebbe potuto descriverlo, anche con le parole complicate di cui disponeva. Ma adesso era il prodotto di una scienza che aveva superato le complicazioni balbettanti dei primi tentativi. Una cosa andava fatta nel modo più semplice. Slim si domandava perché non si fosse fatto così fin dall'inizio... una reazione normale, quando sì è raggiunta la semplificazione finale. Annuì.

«Bene. Fats, ecco il risultato. Adesso avrai un'efficienza del 99,99% invece del 20% massimo di prima. Hai ragione, Lhin».

Fats non capiva niente d'elettronica, ma quando Lhin l'aveva spiegato gli era parso che fosse tutto giusto, e perciò non fece commentì. Si avviò verso la cabina di comando. «Bene, allora ce ne andiamo. Arrivederci, scimmiotto».

Slim prese il filo e lo consegnò a Lhin, poi l'accompagnò fino alla camera di compensazione. Dal suolo, mentre i portelli si chiudevano, l'uomo della Luna alzò la testa e riuscì a sorridere come un terrestre, «Devo aprirvi le porte lassù, per farvi passare. E voi siete stati pagati, e tutto è a posto, no? Allora... arrivederci, Slim. I Grandi ti siano propizi, perché mi hai reso la mia gente».

«Adios», rispose Slim, e salutò con la mano, prima che i portelli si chiudessero. «Forse torneremo, una volta o l'altra, per vedere come te la passi».

 

Ritornato nella grotta, Lhin si strinse il rame al petto e attese il rombo del razzo. Era pervaso da sentimenti contrastanti, da incertezze, il rame lo mandava in estasi, ma nella mente di Fats c'erano pensieri poco chiari. Bene, lui aveva il rame necessario per molte generazioni: la sorte del suo popolo, adesso, riposava sulle ginocchia dei Grandi.

Si soffermò davanti all'entrata, seguendo con gli occhi la fiamma costante del razzo che saliva, portando con sé il fato di una razza. Se i due avessero parlato delle sostanze radioattive, sarebbe stata la schiavitù e l'estinzione. Se avessero taciuto, forse sarebbe ritornata l'antica grandezza, e forse sarebbe stato possibile riprendere i viaggi ad altri pianeti, abbandonati già al vertice del loro progresso. Ma ora quei pianeti ospitavano la vita e l'intelligenza, anziché le giungle fumanti. Forse, con il tempo e con i materiali portati da altri pianeti grazie all'antica scienza, si sarebbe trovata una soluzione che avrebbe reso il loro mondo allo splendore di un tempo, come avevano sognato prima che l'impotenza e le ali tenebrose della notte discendessero sulla razza.

Mentre guardava, il razzo saliva a spirale sopra di lui, tagliando la luce e creando ombre, come un frullo d'ali uscite dalle nebbie del passato, quando esseri volanti avevano riempito l'atmosfera della Luna. Forse erano un presagio, quelle ali nere che salivano e passavano attraverso il tetto mentre lui apriva le porte scorrevoli, e sfrecciavano fuori, lasciandosi indietro la luce chiara. Ma non sapeva se fosse un presagio fausto o nefasto.

Lhin riportò il filo di rame nella stanza dell'incubatrice.

E a bordo della nave, Slim guardava Fats che si agitava e si sforzava di pensare, e sul suo viso c'era un'espressione divertita. «Allora, era efficiente? Magari come un umano?».

«Già. D'accordo, anche meglio. Ammetto tutto quel che vuoi tu. È in gamba quanto me... forse anche di più. Contento?».

«No». Slim era deciso a battere il ferro finché era caldo. «E quelle sostanze radioattive?».

Fats immise altra energia nei tubi, e soffocò un'esclamazione quando la nuova potenza del razzo lo schiacciò contro il sediolo. Aumentò l'accelerazione più dolcemente, guardando fisso davanti a sé. Finalmente alzò le spalle e si girò verso Slim.

«D'accordo, hai vinto tu. Lo scimmiotto si tiene la libertà e io tengo la bocca chiusa. Contento adesso?».

«Sì». Slim era più che contento. Anche per lui, quello sembrava un presagio del futuro, la prova che l'idealismo non era una totale follia, un giorno le ali tenebrose del pregiudizio e de! disprezzo verso gli altri avrebbero abbandonato l'Impero della Terra, come ora stavano abbandonando la mente di Fats. Forse non sarebbe avvenuto nel suo tempo, ma un giorno... E allora avrebbe governato l'intelligenza, non la razza.

«Ben contento, Fats», disse. «E non devi temere di perderci troppo. Guadagneremo più denaro di quanto potremo mai spendere grazie ai nuovi principi introdotti da Lhin. Ho già pensato a una dozzina di applicazioni possibili. Cosa conti di fare della tua parte?».

Fats sogghignò. «Farò l'idiota. Ti aiuterò a ricominciare la tua propaganda e andrò in giro ad abbracciare marziani e scimmiotti. Chissà cosa sta pensando in questo momento il nostro scimmiottino, a proposito».

In quel momento, Lhin non pensava; aveva risolto l'enigma dei fattori nella mente di Fats, e sapeva quale sarebbe stata la decisione. Adesso stava producendo solfato di rame e vedeva spuntare l'alba dopo una lunga notte. Ogni alba ha sempre una sua bellezza e questa, per lui, era meravigliosa.

 

Collabora, altrimenti...

Cooperate - or else!

di A.E. Van Vogt

Astounding , Aprile

 

La storia dell'Età dell'Oro della fantascienza è in effetti la storia dei racconti e dei romanzi che vennero pubblicati su Astounding, sebbene anche altrove apparissero testi ottimi. E benché sia vero che questo periodo fu dominato da una dozzina di personaggi, certi scrittori tendevano a dominare particolari anni. Il 1941 fu l'Anno di Heinlein, e si può sostenere che il 1942 fu l'Anno di van Vogt. Oltre ai tre racconti inclusi nel presente volume, Astonishing pubblicò anche (tra altri suoi testi), Recruiting Station (Stazione di reclutamento, in marzo) e Secret of Unattainable (Il segreto dell'irraggiungibile, in luglio), due racconti notevolissimi, e van Vogt acquistò una grande popolarità come maestro della space opera più complessa e affascinante.

Il tema di Collabora, altrimenti... è ben espresso dal titolo, e il racconto contiene un messaggio importante: una comunità di interessi basata sulla paura può essere comunque una comunità.

 

(Uno dei valori di una serie antologica come questa, e il valore particolare che mi ha attirato verso tale idea è che una serie di grandi racconti è saldamente inquadrata sullo sfondo storico e sociale grazie all'introduzione di Marty. I meriti della collaborazione tra quelli che potrebbero sembrare nemici naturali rispecchiano il fatto che nel 1942 l'Unione Sovietica era alleata con gli Stati Uniti e la Gran Bretagna, mentre i tre paesi lottavano disperatamente contro la Germania nazista. Spero sia possibile formare un'alleanza altrettanto solida e più duratura contro il pericolo che oggi ci assedia... più grave e dijficiìe da sconfiggere dei nazisti, perché i pericoli di oggi sono nebulosi e non personificati: l'esaurimento delle risorse naturali, la sovrappopolazione, l'inquinamento, la corsa agli armamenti e così via. I.A.)

 

Quando l'astronave svanì tra le nebbie fumiganti di Eristan II, il professor Jamieson estrasse la pistola. Si sentiva fisicamente nauseato e distrutto per il modo in cui era stato trascinato per tanti lunghi momenti nel vento furioso della grande nave. Ma il senso del pericolo lo faceva rimanere teso nell'imbracatura fissata con i cavi metallici alla lastra antigravità che ora oscillava dolcemente sopra di lui. Socchiudendo le palpebre, alzò gli occhi e fissò l'ezwal che lo sbirciava guardingo dal bordo della lastra.

I tre occhi allineati, grigi come l'acciaio opaco, lo scrutavano immobili. La massiccia testa azzurra stava librata, vigile e — Jamieson lo sapeva — era pronta a ritrarsi di scatto nell'istante in cui avesse letto nei suoi pensieri l'intenzione di sparare.

«Bene», disse Jamieson in tono aspro, «eccoci qui, tutti e due, a circa centomila anni dai nostri rispettivi pianeti. E stiamo precipitando verso l'inferno di una giungla primitiva che tu, se posso giudicare in base alla tua esistenza isolata sul Pianeta di Carson. non puoi immaginare neppure lontanamente, nonostante la capacità di leggere nei miei pensieri. Neppure un ezwal che pesa duemilaquattrocento chili ha una possibilità di cavarsela laggiù... da solo!».

Una grande zampa dalle dita lunghissime e irta di artigli si sporse impacciata dal bordo della zattera e scattò verso uno dei quattro cavi metallici che sostenevano l'imbracatura di Jamieson. Si sentì un netto ping metallico. Il cavo si tranciò come uno spago marcio, sotto quell'unico colpo.

Come un lampo indistinto, il braccio enorme si ritrasse e sparì. E rimasero soltanto la grossa testa e gli occhi calmi e immoti che lo scrutavano. Finalmente, un pensiero giunse a Jamieson, un pensiero freddo, tranquillo.

«Io e te, professor Jamieson, ci comprendiamo molto bene. Dei duecento uomini e più che erano a bordo della tua nave, tu solo sei rimasto in vita. Di tutta la razza umana, quindi, tu solo sai che gli ezwal di quello che chiami il Pianeta di Carson non sono bestie stupide ma esseri intelligenti. Avrei potuto restare sulla nave, e così avrei finito per ritornare in patria. Ma piuttosto che correre il rischio che tu sfuggissi ai pericoli di quella giungla laggiù, ho preso la misura disperata di balzare su questa zattera antigravità proprio mentre ti stavi lanciando dal portello. Ciò che non riesco a comprendere chiaramente è perché tu non sia fuggito mentre stavo ancora abbattendo la porta della sala comando. C'è un'immagine confusa di paura nella tua mente, ma...»

Jamieson stava ridendo, e la risata era un suono stridente nelle sue orecchie: ma c'era un divertimento sincero nei pensieri cupi che l'accompagnavano. «Povero sciocco!» esclamò alla fine. «Ancora non ti rendi conto di ciò che ti attende laggiù. Mentre tu abbattevi la porta, la nave stava sorvolando l'oceano maggiore del pianeta. Tutti quei balugini d'acqua laggiù sono in realtà una continuazione dell'oceano, e ogni pozzanghera brulica di belve maligne. E davanti a noi c'è lo Stretto dei Demoni, uno specchio d'acqua ampio una cinquantina di miglia che separa la giungla oceanica dal continente. La nostra nave precipiterà su quel continente, a circa mille miglia da qui. direi. Per raggiungerla, dovremo attraversare quelle cinquanta miglia pullulanti di cose. Ora sai perché aspettavo, e perché tu hai avuto la possibilità di balzare su quella piastra antigravità. Io...»

La sua voce si spense in un «ugh» di sbalordimento quando, con la rapidità di un serpente all'attacco, l'ezwal si erse torcendosi in una mostruosa forma azzurra di zanne e di artigli spaventosi che si protendeva con forza tremenda verso un uccello gigantesco. L'uccello stava scendendo in picchiata verso la superficie lucente della zattera antigravità.

L'uccello non deviò. Per un attimo, Jamieson ebbe la visione terrificante degli spietati occhi vitrei e sporgenti e dei massicci artigli lunghi come forconi che si tendevano per colpire l'ezwal. E poi...

L'urto sballottò la zattera come un fuscello in acque tempestose. Jamieson oscillò con vertiginosa violenza da un lato all'altro. Il rombo dell'aria smossa da quelle ali potenti fu come un tuono che lo stordiva. Ansimando, alzò la pistola. La fiamma rossa si protese avidamente verso una di quelle ali. L'ala mutò in un nero striato, si accartocciò e nello stesso istante l'uccello fu letteralmente scagliato lontano dalla forza furibonda dell'ezwal.

Precipitò, precipitò, divenne un punto indistinto tra la nebbia e si perse nello sfondo nero della sottostante massa continentale.

Lassù, sopra Jamieson, l'ezwal, pericolosamente sbilanciato, si aggrappava all'orlo della zattera. Quattro delle sue braccia-gambe artigliavano invano l'aria; le altre due lottarono furiosamente per restare afferrate alle sbarre metalliche sul piano della piastra... e vinsero. Il corpo enorme si trascinò indietro fino a quando, ancora una volta, rimase visibile soltanto la massiccia testa azzurra. Jamieson abbassò la pistola, con torva gaiezza.

«Hai visto?», disse. «Persino un uccellaccio è quasi riuscito a sopraffarti... e io avrei potuto squarciarti il ventre. Non l'ho fatto perché forse comincerà a entrarti in testa che dobbiamo rinviare il nostro dissidio personale e lottare insieme, se vogliamo sperare di uscire da quell'inferno di giungle e di paludi».

Il pensiero che gli rispose era freddo come gli occhi grigi che lo fissavano con fermezza.

«Professor Jamieson, ciò che avresti potuto fare non aveva alcuna importanza per me, che sapevo cosa avresti fatto. In quanto alla tua gentile offerta di allearti con me, ti ripeto che sono qui per vederti morto, non per proteggere il tuo miserabile corpo. Quindi, astieniti da altri appelli disperati e affronta la tua sorte con la dignità che si conviene a uno scienziato».

Jamieson tacque. Un vento sottile, caldo e umido gli spirava addosso, portando i primi deboli odori osceni dal mondo sottostante. La zattera era ancora a un'altezza enorme, ma i vapori fumiganti che avvolgevano con forza fiacca e tuttavia offuscante quella terra primordiale avevano perduto un po' dell'opacità. Tratti di giungla e di mare che, fino a pochi minuti prima, erano confusi dalla nebbia onnipervadente, ora apparivano più nitidi, una terribile, irregolare distesa d'alberi scuri che si alternavano all'acqua luccicante di barbagli nella luce solare.

Una scena fantastica, incredibile. Fin dove l'occhio poteva giungere, nelle nebbie remote a nord, c'erano la giungla fumante e l'oceano velato e luccicante... l'infinita, mortale realtà di Eristan II. E chissà dove, laggiù, al di là del peso opprimente dei vapori, quelle giungle in apparenza sterminate finivano bruscamente nel tenebroso, orrendo gorgo d'acqua dello Stretto dei Demoni!

«Quindi», disse finalmente Jamieson, senza alzare la voce, «tu credi che te la caverai. Per tutta la tua lunga vita, per tutte le generazioni dei tuoi antenati, tu e i tuoi simili avete contato esclusivamente sui vostri corpi magnifici per sopravvivere. Mentre gli uomini si ammucchiavano spaventati nelle caverne, scoprendo il fuoco come parziale difesa, creando disperatamente armi che prima non erano mai esistite, precedendo sempre di un passo la morte violenta... per tutti quei milioni di anni, gli ezwal del Pianeta di Carson si aggiravano sui loro grandi continenti fertili, senza paura, senza rivali nella forza e nell'intelletto, senza bisogno di rifugi, di fuochi, di indumenti, di armi, di...»

«Vorrai ammettere», l'interruppe freddamente l'ezwal, «che l'adattamento a un ambiente difficile deve essere una delle finalità dell'essere superiore. Gli esseri umani hanno creato ciò che chiamano civiltà, e che in effetti è soltanto una barriera materiale tra loro e l'ambiente, così immensa e inflessibile che l'intera esistenza della razza viene dedicata al suo mantenimento. Individualmente, l'uomo è uno schiavo frivolo, fragile, incoerente, che traina il carro per il suo turno e muore dolorosamente a causa di qualche menomazione del suo organismo assediato dalle malattie. Purtroppo, questo mostruoso essere debole, con la sua sete di potere e i suoi istinti sanguinari, è il più grande pericolo esistente per le razze sane e razionali dell'Universo. È indispensabile impedirgli di contagiare coloro che sono migliori di lui».

Jamieson rise seccamente. «Ma ammetterai, spero, che c'è qualcosa di meraviglioso in un insignificante, timoroso relitto della vita che lotta con successo contro tutte le probabilità, aspira all'onniscienza, e finalmente raggiunge le stelle!».

«Assurdo!». La risposta aveva toni spazientiti. «L'uomo e i suoi pensieri costituiscono un morbo. In questi ultimi minuti, tu hai esposto come prove argomenti speciosi, in apparenza imparziali, in realtà ideati per portare ancora a un appello alla mia collaborazione: una forma di disonestà inammissibile. Come ulteriore prova, mi basta prevedere intellettualmente il momento del nostro atterraggio. Presumendo che io non compia nessun tentativo di farti alcun male, il tuo miserabile corpo si troverà immediatamente, e da quel momento ininterrottamente, in mortale pericolo, mentre io... devi ammettere che. sebbene laggiù vi siano belve fisicamente più forti di me. la differenza non è tanto grande che la mia intelligenza non possa controbilanciare la debolezza, anche a costo di assumere la forma di una fuga ingegnosa. Ammetterai inoltre...»

«Non ammetto nulla!» scattò Jamieson. «Solo che avrai la più grande sorpresa della tua vita. E rimpiangerai, in modo da trascendere la tua attuale capacità emotiva, la mancanza di quelle stesse artificiosità che disprezzi nell'uomo. Non intendo le armi materiali, bensì...»

«Ciò che intendi non ha alcuna importanza. Vedo che ti proponi di insistere in questo tipo mendace e inutile di ragionamento, e mi hai convinto che non uscirai mai vivo da quella giungla laggiù. Quindi...»

Lo stesso braccio immane che pochi minuti prima aveva tranciato il cavo di acciaio apparve fulmineamente, abbassandosi in un gesto coordinato.

I due cavi che ancora restavano attaccati all'imbracatura di Jamieson si lacerarono come carta bagnata; e la forza del colpo fu tale che Jamieson venne sbalzato per trenta metri parallelamente al suolo lontano, prima che il suo corpo dinoccolato e contratto scendesse nella curva della tremenda caduta.

Un pensiero freddo e ironico lo raggiunse.

«Noto che sei un uomo molto prudente, professore, perché hai legato alla schiena non soltanto uno zaino ma anche un paracadute. Questo ti permetterà di raggiungere sano e salvo il suolo, ma il tuo atterraggio sarà deciso in larga misura dal caso. Senza dubbio, la tua logica ti permetterà di visualizzare la situazione. Addio e... cattiva fortuna!».

Jamieson strinse le corde sottili e robuste del paracadute, socchiudendo le palpebre per scrutare il panorama sottostante. Attraverso la nebbia ormai quasi trasparente, un poco più a nord, c'era la chiazza brunoverde della giungla. Se avesse potuto scendere là...

Tirò di nuovo le corde e con gelida attenzione osservò l'effetto, calcolò le possibilità matematiche. Scendeva lentamente: quella poteva essere una conseguenza dell'aria pesante del pianeta. La pressione era di diciotto libbre per pollice quadrato al livello del mare.

Al livello del mare! Sorrise ironicamente, senza allegria. Al livello del mare si sarebbe trovato lui, approssimativamente, entro pochi minuti. Immediatamente sotto di lui il mare non c'era. Qualche chiazza d'acqua, sì, e alberi sparsi. Il resto era una specie di radura... ma non lo era veramente. Aveva un aspetto strano, grigiastro, ripugnante, come...

Il terribile trauma della rivelazione gli fece defluire il sangue dalle guance. La sua mente se ne distolse come da un pensiero inaccettabile. Cedendo al panico, strattonò le corde, come se con la sola forza fisica potesse attirare a sé la giungla illusoriamente vicina. La giungla, la preziosa giungla! Poteva ospitare orrori, ma almeno appartenevano al futuro, mentre quella sostanza infernale direttamente sotto di lui non offriva un futuro, era soltanto una grigia trappola di sabbie mobili, di denso fango soffocante...

All'improvviso, si accorse che la massa compatta degli alberi era al di fuori della sua portata. Il paracadute era meno di centocinquanta metri al di sopra dell'immonda, mortale distesa di fango. La giungla — fetida, orribile, esalante gli acuti odori maligni della vegetazione putrefatta e tuttavia immensamente desiderabile tra tutte le destinazioni — si trovava all'incirca alla stessa distanza, a nord-ovest.

Per raggiungerla, avrebbe dovuto compiere una discesa a quarantacinque gradi. Meticolosamente, Jamieson regolò i comandi delle corde. Il paracadute prese il vento come un aliante; la giungla si avvicinò, si avvicinò...

Atterrò trionfalmente in una macchia sparsa d'alberi, un'isoletta che meno di cinquanta metri separavano dalla massa principale della foresta.

L'isoletta era lunga tre metri per due e mezzo: quattro alberi, il più alto dei quali arrivava ai quindici metri, crescevano precariamente su quella base fradicia e relativamente solida.

Quattro alberi che rappresentavano un totale di circa sessanta metri. La lunghezza era senza dubbio sufficiente. Ma... la sensazione iniziale di trionfo incominciò a dileguarsi: senza una gru per manovrare tre di quegli alberi, era assolutamente inutile sapere che erano la salvezza.

Jamieson sedette, accorgendosi per la prima volta del dolore sordo alle spalle, della tensione forzata di tutto il corpo, d'un senso deprimente di calore. Poteva vedere il sole, una chiazza bianca appena percettibile tra i vapori bianchi che formavano l'atmosfera di quella terra mortale e fantastica.

La macchia del sole parve svanire in lontananza; un'oscurità indefinibile prese forma nella sua mente: e poi venne il pensiero netto, la certezza di essersi addormentato.

Aprì gli occhi, trasalendo. Il sole era molto più basso, a oriente, e...

La sua mente restò paralizzata dal trauma della scoperta. Immediatamente, tuttavia, divenne viva, salda, lucida, nonostante l'immensa scossa dello sbigottimento.

Ciò che era accaduto sembrava una fantasia scaturita da una favola. I quattro alberi, con i resti sbrindellati del paracadute ancora appesi, prima torreggiavano sopra di lui. Ma mentre dormiva, il suo piano si era realizzato.

Un ponte di alberi, più solido di ogni altro che la minuscola isoletta avrebbe potuto produrre, si estendeva diritto e robusto fino alla terraferma. Naturalmente, non c'era dubbio circa l'identità dell'autore dell'impresa colossale: l'ezwal stava ritto con disinvoltura su due zampe, appoggiandosi come un uomo al tronco di un albero gigantesco. E vennero i suoi pensieri:

«Non devi temere, professor Jamieson. Ho accettato il tuo punto di vista. Sono disposto ad aiutarti a raggiungere la terraferma e quindi a collaborare con te. Sono...»

La risata profonda e irritata di Jamieson interruppe il pensiero. «Maledetto bugiardo!» disse finalmente lo scienziato. «Vuoi dire, in realtà, che ti sei imbattuto in qualcosa che non potevi sistemare. Comunque, per me sta bene così. Purché c'intendiamo, andremo d'accordo».

Il serpente uscì scivolando pesantemente dalla giungla, a tre metri dall'estremità del ponte d'alberi, dalla parte della terraferma, dieci metri alla destra dell'ezwal. Jamieson, che avanzava guardingo verso il centro del ponte, vide il primo ondeggiare violento dell'alta erba lussureggiante... e restò immobile quando la crudele testa fantastica si sollevò, seguita dai primi sei metri del grosso corpo minaccioso.

Per brevi attimi, nel movimento ondeggiante, la testa enorme si volse verso di lui. Gli occhietti porcini parvero fissarsi torvi nei suoi occhi sgomenti. Il trauma lo inchiodò: il trauma inconfondibile di fronte all'incredibile malasorte che aveva permesso all'essere esiziale di sorprenderlo in quella posizione incommensurabilmente indifesa.

La paralisi, sotto quegli occhi sfolgoranti, era una sensazione viva, tormentosa. La tensione divampò come un incendio in ogni muscolo del suo corpo. Era la tensione istintiva per irrigidirsi, anormale e terribile... ma servì allo scopo.

La testa spaventosa saettò in un'altra direzione, si volse affascinata verso l'ezwal e assunse una rigidità propria.

Jamieson si rilassò: la breve paura si mutò in una breve collera violenta. Proiettò all'ezwal un pensiero bruciante:

«Credevo che fossi in grado di percepire l'avvicinarsi di animali pericolosi leggendo nelle loro menti».

Al suo cervello non arrivò alcuna risposta, il serpente gigantesco continuò a snodarsi nella radura: e davanti a quella testa cornuta e torreggiante che si ergeva mostruosamente dal lungo corpo titanico, l'ezwal arretrava adagio, cedendo con tetra riluttanza all'evidente convinzione di non essere in grado di opporsi a quell'essere immane.

Jamieson. che aveva ritrovato la sua freddezza, rivolse all'ezwal un pensiero ironico.

«Può interessarti sapere che, nella mia qualità di primo scienziato della Commissione Militare Interstellare, ho riferito che Eristan II non è utilizzabile come base militare per la nostra flotta, e questo per due ragioni fondamentali: una delle più maledette piante carnivore che si siano mai viste, e questa graziosa bestiolina. Ce ne sono milioni, delle une e delle altre. Ogni serpente ne mette al mondo centinaia, durante la sua vita, quindi è impossibile sterminarli. Sono bisessuali, e raggiungono la lunghezza di circa cinquanta metri e un peso di dieci tonnellate».

L'ezwal, che ora si trovava a una quindicina di metri dal serpente, si fermò e, senza guardare Jamieson, gli trasmise un pensiero rapido e serrato.

«Il suo aspetto mi ha sorpreso, ma la ragione è che la sua mente mostrava solo una vaga curiosità per i suoni che aveva udito, e non un pensiero chiaro e netto come l'intenzione di uccidere. Ma questo non ha importanza. È qui; è pericoloso. Non ti ha ancora visto, quindi comportati di conseguenza. Non pensa di potermi uccidere, quindi il problema continua a riguardare essenzialmente te: il pericolo è tutto tuo».

L'ezwal concluse, quasi con indifferenza: «Sono disposto a darti un aiuto limitato nei tuoi eventuali piani, ma per favore non dire altre assurdità circa la nostra interdipendenza. Finora c'è stato uno solo di noi che ha dovuto dipendere dall'altro. Credo che tu sappia di chi si tratta».

Jamieson s'incupì. «Non essere troppo sicuro di non correre pericolo. Il serpente sembra appesantito dalla muscolatura, ma quando comincia a muoversi, è come una molla d'acciaio per i primi cento-centoventi metri... e tu non hai tanto spazio dietro di te».

«Cosa vorresti dire? Posso percorrere centoventi metri in tre secondi, tempo terrestre».

Freddamente, lo scienziato ribatté: «Potresti farlo, se avessi a disposizione i centoventi metri da percorrere. Ma non li hai. Ho appena formato un'immagine mentale di questa parte della giungla, così come l'ho vista prima di atterrare.

«Vi sono all'incirca cinquanta metri di giungla, quindi una spiaggia curva, piatta e fangosa, una continuazione del limo che c'è qui. La curva devia di nuovo da questa parte, e si isola completamente su questa piccola lingua di giungla. Per liberarti del serpente, dovresti incrociarlo. Approssimativamente, lo spazio libero intorno a te è una cinquantina di metri in ogni direzione... e non basta! Interdipendenti! Puoi ben affermare che lo siamo. Scene come questa avvengono mille volte l'anno, su Eristan II».

Vi fu un silenzio stupito, quindi: «Perché non punti la pistola atomica sul serpente... perché non lo bruci?»

«Perché piombi qui mentre io sono indifeso? Quei grossi serpenti nascono nel fango e vi trascorrono metà della vita. Impiegherei cinque minuti per bruciare quella testa. Nel frattempo, verrei inghiottito e digerito».

I brevi secondi che seguirono furono carichi di riluttante disperazione. Ma non potevano esservi altri indugi. Prontamente, giunse la richiesta rancorosa:

«Professor Jamieson, accetto i tuoi suggerimenti... e fai presto!».

Jamieson si rese conto, con un senso di depressione, che ancora una volta l'ezwal chiedeva il suo aiuto, sapendo che l'avrebbe ottenuto; ma da parte sua non prometteva nulla in cambio.

E non c'era tempo per mercanteggiare. Seccamente, trasmise:

«È il caso più classico dell'azione in coppia. Il serpente non ha vere debolezze, eccettuata forse questa: prima di attaccare, comincerà a far oscillare la testa. È un metodo quasi universale usato dai serpenti per ipnotizzare e paralizzare le vittime. In effetti, il movimento è anche parzialmente autoipnotico. Appena sarà possibile, dopo l'inizio dell'oscillazione, gli brucerò gli occhi... e tu gli balzerai sul dorso e resterai aggrappato. Ha il cervello situato immediatamente dietro quel grosso corno. Tu affonda gli artigli e le zanne, mentre io uso la pistola».

Il pensiero si disperse come pula al vento, mentre la testa immane incominciava a muoversi. Con uno scatto tremulo, Jamieson afferrò la sua arma...

Poi, il guaio non fu tanto il fatto che il serpente opponesse resistenza, quanto quello che non voleva saperne di morire. I resti fumanti si contorcevano ancora mezz'ora dopo, quando Jamieson scese stancamente dal ponte d'alberi e si accasciò al suolo.

Quando finalmente si rialzò, l'ezwal era seduto a quindici metri, sotto un gruppo d'alberi, con le zampe mediane pure posate al suolo e quelle anteriori conserte sul petto... e lo contemplava.

Appariva stranamente agile e bello, con quella pelle azzurra e quella forma massiccia. E traeva motivo di conforto dalla consapevolezza che, almeno al momento, i muscoli possenti e guizzanti sotto l'epidermide serica erano dalla sua parte.

Jamieson ricambiò con fermezza lo sguardo dell'ezwal, e finalmente chiese:

«Dov'è finita la zattera antigravità?»

«L'ho abbandonata trentacinque miglia più a nord».

Jamieson esitò, quindi: «Dovremo raggiungerla. Ho praticamente scaricato la mia pistola sul serpente. Occorre metallo per ricaricarla: e la zattera è l'unica massa metallica consistente di cui io sia a conoscenza».

Tacque ancora e poi: «Un'altra cosa. Voglio la tua parola d'onore che non cercherai di farmi alcun male fino a quando saremo arrivati sani e salvi dall'altra parte dello Stretto dei Demoni!».

«Accetteresti la mia parola?». I tre occhi allineati, grigi come l'acciaio, lo fissavano incuriositi.

«Sì».

«Sta bene, te la dò».

Jamieson scosse il capo con un sorriso torvo. «Oh, no: tu non la dai tanto facilmente».

«Avevi detto, mi pare, che avresti accettato la mia parola», ribatté stizzito l'ezwal.

«L'accetterò, ma nella fraseologia seguente». Jamieson fissò intensamente il possente, mortale nemico. «Voglio che tu giuri per il sole che sorge e per il suolo verde e ricco di frutti, per le gioie della mente contemplativa e per lo splendore della vita immortale...»

S'interruppe. «Ebbene?»

Un fuoco grigio si accese nello sguardo dell'ezwal e il suo pensiero, quando rispose, aveva una sfumatura feroce: «Professor Jamieson, tu sei ancora più pericoloso di quanto avessi pensato. È chiaro che tra noi non può esservi alcun compromesso».

«Ma farai la promessa limitata che chiedo?».

Gli occhi grigi divennero stranamente opachi; le lunghe labbra sottili si schiusero in un ringhio che mostrò le grosse zanne scure.

«No!». Recisamente.

«Pensavo», disse sottovoce Jamieson, «che avrei dovuto chiarirlo».

Nessuna risposta. L'ezwal rimase seduto, con lo sguardo fisso su di lui.

«Un'altra cosa», continuò Jamieson. «Smettila di fingere di poter leggere tutti i miei pensieri. Non sapevi che conoscevo la tua religione. Sono pronto a scommettere che puoi captare soltanto le mie forme-idea più nitide, in particolare quando la mia mente è concentrata sull'espressione verbale».

«Io non ho finto nulla», rispose freddamente l'ezwal. «Continuerò a tenerti il più possibile all'oscuro».

«Il dubbio, certo, mi tormenterà la mente», disse Jamieson. «Ma non troppo. Quando accetto una teoria, agisco di conseguenza. Se risultasse che mi sbaglio, resta sempre l'arbitrato finale della mia pistola atomica contro la tua forza. Non scommetterei sull'esito».

«Ma ora...» Jamieson curvò le spalle e si avviò, «andiamo. Il sistema più rapido, credo, sarebbe che io montassi sul tuo dorso. Potrei legare una corda del paracadute intorno al tuo corpo, sopra le zampe mediane, e aggrapparmi per non cadere. La mia unica condizione è che tu devi promettermi di lasciarmi smontare prima di compiere una qualunque mossa ostile. D'accordo?».

L'ezwal esitò, poi annuì: «Per il momento».

Jamieson sorrideva, con un'espressione ironica sul volto allungato, scarno ma forte.

«Quindi rimane soltanto una cosa: in che ti sei imbattuto, per rinunciare all'idea di uccidermi immediatamente? Si trattava di qualcosa completamente al di fuori dell'esistenza isolata e aristocratica di un ezwal?».

«Montami sul dorso!» giunse il pensiero ringhiante. «Non voglio prediche, e non voglio sentire più la tua voce gracchiante. Non temo niente, su questo pianeta. Le ragioni che mi hanno indotto a tornare indietro non hanno alcun rapporto con le tue miserabili idee: e non ci vorrebbe molto per farmi cambiare decisione. Ricordalo!».

Jamieson tacque, sbalordito. Non aveva avuto intenzione di provocare l'ezwal. Sarebbe stato più cauto in futuro, altrimenti quell'enorme animale, più grosso di otto leoni e più tremendo di cento, avrebbe potuto scatenarsi contro di lui quasi senza rendersene conto.

Un'ora più tardi la lunga astronave affusolata, a forma di pesce, uscì dai vapori fumanti che avvolgevano i cieli di Eristan II. Passò a meno di trecento metri di quota, minacciosa come un pesce spada con quella prua finemente appuntita.

Il pensiero esplosivo dell'ezwal saettò nel cervello di Jamieson: «Professor Jamieson, se fai anche un solo tentativo di dare un segnale, ti uccido!».

Jamieson taceva, con la mente irrigidita e svuotata dopo un trasalimento. Mentre guardava, la grande nave lunga mezzo miglio scese ancora più in basso e sparì oltre il limitare della giungla, più avanti. Senza dubbio stava per atterrare.

E poi i pensieri dell'ezwal ritornarono, ironici, quasi esultanti. «È inutile cercare di nasconderlo... perché adesso che è qui, ricordo che i tuoi compagni morti avevano, in fondo alle menti, la conoscenza di un'altra astronave».

Jamieson deglutì il groppo che gli stringeva la gola. Era pervaso da un senso di malessere, da una rabbia immensa per l'incredibile colpo di sfortuna... quella nave che veniva lì, ora!

Depresso, si abbandonò al ritmo faticoso dell'agile galoppo dell'ezwal; e per qualche tempo vi furono soltanto il vento contaminato dagli odori di putredine, lo scalpicciare di sei zampe, un flusso di suono piatto e opaco. Intorno a lui la giungla buia e di tanto in tanto il bizzarro lambire d'invisibili acque infide. Era tutto, la stranezza, la terribilità di quella folle cavalcata di un uomo sul dorso di un essere simile a una belva azzurra, che lo odiava... e sapeva di quella nave.

Alla fine, rancorosamente, cedette. Disse in tono secco, come se le sue parole potessero ancora trasformare la sconfitta in vittoria: «Ora so, comunque, che la tua facoltà di leggere nel pensiero è molto limitata. Non hai neppure incominciato a sospettare perché hai potuto conquistare con tanta facilità la mia nave».

«E perché dovrei?». L'ezwal era spazientito. «Ora ricordo che c'è stato un lungo periodo durante il quale non ho captato neppure un pensiero, ma solo un eccesso di tensione di energia, anormalmente superiore a quella abituale dei vostri motori. Deve essere stato quando avete accelerato. Poi ho notato che la porta della gabbia era socchiusa... e ho dimenticato tutto il resto».

Lo scienziato annuì, oppresso. «Avevamo subito uno sballottamento tremendo: niente di palpabile, certo, perché l'interstellare era al massimo. Ma chissà come deve esserci stato un colpo che ha sconvolto i nostri organi.

«Più tardi, siamo stati in guardia contro i pericoli esterni: e quindi tu, all'interno, hai avuto la possibilità di uccidere cento uomini, quasi tutti nel sonno».

Si tese, cautamente, fissando gli occhi il più vagamente possibile sul ramo d'albero che gli stava davanti, concentrandosi con enorme noncuranza sull'idea di chinarsi per schivarlo. Ma chissà come, il vero proposito filtrò dal suo cervello convulso.

Con un movimento scattante, come un cavallo, l'ezwal s'impennò. La violenza di quel moto fu devastante. Come sparato da un cannone, Jamieson fu scagliato in avanti, contro quel dorso duro quanto l'acciaio. Stordito, in preda alla vertigine, lottò per mantenere l'equilibrio... e poi tutto finì.

Il grande animale si tuffò a lato nel folto della giungla, allontanandosi dal ramo sporgente che per un momento aveva offerto la dolce promessa della sicurezza. Si insinuò con destrezza fra due alberi colossali, e un attimo dopo emerse sulla spiaggia d"una lunga, scintillante baia oceanica.

Veloce come il vento, corse sulla sabbia deserta, e poi si addentrò nella giungla più fitta. Non irradiava un solo pensiero, una sfumatura di trionfo, nulla che indicasse l'immane vittoria appena conquistata.

Jamieson. scosso dalla nausea, disse: «Ho fatto quel tentativo perché so che cosa farai. Ammetto che eravamo in lotta con quell'incrociatore dei Rull. Ma sei pazzo, se credi che possano rappresentare un vantaggio per te. I Rull sono diversi. Vengono da un'altra galassia. Sono...»

«Professore!». Il pensiero che lo interruppe aveva la forza vibrante del metallo. «Non azzardarti a estrarre la pistola per ucciderti. Una mossa falsa, e ti mostrerò con quale dolorosa violenza può venire disarmato un uomo».

«Avevi promesso», mormorò Jamieson, «di non compiere gesti ostili...»

«E manterrò la promessa... alla lettera, secondo l'abitudine dell'uomo, e quando lo vorrò. Ma ora... ho appreso dalla tua mente che ritieni che quegli esseri siano atterrati perché hanno captato la minutissima scarica d'energia della zattera antigravità».

«Una semplice deduzione». Seccamente. «Deve esserci una ragione logica e, a meno che tu abbia tolto l'energia come avevo fatto io sull'astronave...»

«Non l'ho tolta. Quindi sono atterrati per questo. E probabilmente i loro strumenti hanno registrato anche il fatto che hai usato la pistola contro il serpente. Perciò sanno con certezza che qui c'è qualcuno. E allora la soluzione migliore, per me, è dirigermi verso di loro prima che mi uccidano accidentalmente. Sono certo che mi daranno il benvenuto quando vedranno il mio prigioniero e dirò loro che io e gli altri ezwal siamo pronti ad aiutarli a scacciare l'uomo dal Pianeta di Carson. E tu sarai sceso indenne da! mio dorso... come avevo promesso».

Lo scienziato si umettò le labbra aride. «È bestiale», disse finalmente. «Leggendo nella mia mente, hai appreso che i Rull divorano gli esseri umani. La Terra è uno degli otto pianeti di questa galassia dove la carne è gustosa per quegli esseri infernali...»

L'ezwal disse freddamente: «Sul Pianeta di Carson, ho visto uomini mangiare con soddisfazione carne di ezwal. Perché gli uomini non dovrebbero venire divorati a loro volta da altri esseri?»

Jamieson tacque, inorridito e ammutolito da quell'odio. Il pensiero dell'altro concluse, duro e tagliente come una selce:

«Forse tu non capisci quanto sia importante che alla Terra, nei prossimi mesi, non giunga notizia dell'intelligenza degli ezwal. Ma noi ezwal lo sappiamo. Io ti voglio morto!».

Eppure in lui c'era ancora una speranza. La riconosceva per ciò che era, la folle, insensata speranza di un uomo ancora vivo, che rifiuta di accettare la morte finché il gelo cinereo non si insinua nelle sue ossa.

Lo schianto degli arbusti lo scosse. I grandi rami di alberi colossali si spezzarono con lamentosa riluttanza. Una mostruosa testa di rettile li scrutò, al di sopra di una pianta gigantesca.

Per un attimo agghiacciante, Jamieson scorse un corpo lucido e squamoso, occhi rossi come il fuoco... e poi quell'incubo ciclopico rimase indietro, mentre l'ezwal correva, sprezzante e terribile nella sua forza indifferente.

E dopo un momento, nonostante il pericolo tremendo, nonostante la disperata certezza di dover convincere l'ezwal che aveva torto... l'ammirazione divampò in lui, un'ammirazione sconfinata e affascinata.

«Per Dio!» esclamò. «Non mi stupirei se riuscissi veramente a sfuggire a tutti gii orrori di questo mondo. Nei miei viaggi attraverso lo spazio, non ho mai visto una combinazione altrettanto perfetta di mente e di muscoli».

«Risparmiati gli elogi», ringhiò l'ezwal.

Jamieson lo udì appena. Aggrottò la fronte, pensieroso. «C'è una belva pelosa dai denti a sciabola, grossa e veloce all'incirca quanto te, che potrebbe metterti in difficoltà, ma credo che tu possa vincere nella corsa e nella lotta ogni altro animale peloso. Poi vi sono le piante maligne, in particolare un'orribile pianta strisciante... non è l'unica intelligente della galassia, ma è la più astuta. Avresti bisogno della mia pistola, se ti trovassi alle prese con una di esse.

«Potresti eluderle, naturalmente, ma per farlo dovresti essere in grado di capire quando ce n'è una nei pressi. Vi sono indizi che ne segnalano la presenza, ma...» Jamieson smorzò il più possibile la propria mente e sorrise, cupo. «Abbandonerò l'argomento prima che tu possa leggerne i particolari nel mio cervello.

«Restano i grandi rettili: probabilmente possono prenderti soltanto nell'acqua. Ecco perché lo Stretto dei Demoni sarebbe un grave pericolo».

«Posso coprire a nuoto», scattò l'ezwal, «cinquanta miglia in tre ore, portandoti sul dorso».

«E allora puoi farlo!». La voce dello scienziato era tagliente. «Se sai fare tutte queste cose... se puoi attraversare gli oceani e mille miglia di giungla, perché sei tornato a cercarmi, sapendo, come ormai dovevi sapere, che non sarei mai riuscito a raggiungere la mia nave da solo? Perché?».

«È buio, dove stai andando tu», disse spazientito l'ezwal, «e la conoscenza non è un requisito per morire. Tutte le tue paure servono soltanto a provare che l'uomo cede a un ambiente ostile, quando resterebbe imperturbato di fronte a un avversario intelligente.

«Ed è per questo che la tua razza non deve sapere che gli ezwal sono intelligenti. Abbiamo letteralmente creato sul Pianeta di Carson un'atmosfera stupida, bestiale, dove gli uomini finiranno per ammettere che la natura è troppo forte per loro. Il fatto che tu abbia rifiutato di affrontare l'ambiente naturale di questo pianeta-giungla. Eristan II, e che lo psicoattrito sul Pianeta di Carson sia già a zero virgola centotrentacinque dimostra che...»

«Eh?» Jamieson fissò la lucente testa azzurra che si alzava e si abbassava ritmicamente. «Sei pazzo 135 vorrebbe dire... venticinque... trenta milioni. Il limite è zero virgola trentotto».

«Esattamente», risposte trionfante l'ezwal. «Trenta milioni di morti».

Un abisso si spalancò davanti alla mente di Jamieson, la buia rivelazione della meta cui conducevano i pensieri di quell'essere mostruoso. Disse, con violenza:

«È una sporca menzogna. I miei rapporti dimostrano...»

«Trenta milioni!» ripeté l'ezwal con spietata soddisfazione. «E io so esattamente cosa significa nei tuoi termini di psico-attrito: zero virgola 136 in confronto a un limite di tensione massimo di zero virgola trentotto. Tale limite, naturalmente, si ha quando l'avversario è la natura. Se la tua razza scoprisse che la causa di tutto è una specie intelligente, la resistenza salirebbe a zero virgola 184... e noi saremmo sconfitti. Tu non sapevi che avevamo studiato così meticolosamente la vostra psicologia».

Pallido e scosso, Jamieson rispose: «Entro cinque anni avremo una popolazione di un miliardo sul Pianeta di Carson, e i pochi ezwal superstiti saranno pochi, dispersi, demoralizzati...»

«Entro cinque mesi», l'interruppe freddamente l'ezwal, «l'uomo esploderà, figurativamente, dal nostro pianeta. La rivoluzione, un cieco impulso collettivo di imbarcarsi a qualunque costo sui trasporti interstellari, una fuga folle dai pericoli insopportabili. E oltre a tutto, l'improvviso arrivo delle navi da guerra dei Rull, venute ad aiutarci. Sarà il disastro più colossale nella lunga storia brutale dell'uomo conquistatore».

Con uno sforzo immane, Jamieson si impose una rigorosa praticità: «Presumendo tutto questo, presumendo che le macchine cedano ai muscoli, cosa farete con i Rull quando noi non ci saremo più?».

«Che si provino a restare!»

Il breve, titanico sforzo per mostrarsi disinvolto lasciò il posto a un'ondata di furore nell'animo di Jamieson. «Maledetti idioti, l'uomo ha preceduto i Rull sul Pianeta di Carson per meno di due anni. Mentre voi idioti ci causavate difficoltà sulla superficie di quel mondo, noi combattevamo lunghe battaglie negli abissi dello spazio, proteggendovi dagli esseri più feroci, spietati e irrazionali che l'universo abbia mai generato».

S'interruppe, cercò di dominarsi e infine disse, cercando rabbiosamente di attenersi ad argomenti razionali: «Non siamo mai riusciti a scacciare i Rull dai pianeti dove si erano insediati. E loro ci hanno estromessi da tre basi importanti prima che ci rendessimo conto dell'enormità del pericolo, e cominciassimo a resistere incrollabilmente, noncuranti delle perdite militari».

S'interruppe di nuovo di fronte alla muraglia ostinata e sprezzante che era la mente dell'ezwal.

«Trenta milioni!» disse sottovoce, quasi tra sé. «Moglie, mariti, figli, innamorati...»

Una nera collera offuscò il suo pensiero conscio. Con una mossa fulminea del braccio estrasse la pistola atomica e ne premette la canna contro la grande spina dorsale crestata d'azzurro.

«Per il cielo, almeno non andrai a trascinare i Rull in quello che dovrà accadere».

L'indice si contrasse con forza sul grilletto: vi fu un bagliore di fuoco bianco che... mancò il bersaglio! Incredibilmente, lo mancò.

Trascorsero lunghi istanti prima che il suo cervello afferrasse il fatto sorprendente che stava volando nell'aria, scagliato via da un guizzo rapidissimo dell'immenso corpo azzurro.

Piombò tra i cespugli. Le dita avide e viscose delle liane afferrarono i suoi indumenti, gli dilaniarono le mani e serrarono la pistola, quella preziosa, inestimabile pistola.

Gli indumenti si strapparono, il sangue scorse in rivoli rossi e atroci... tutto cedette a quell'ambiente disperato tranne l'unica cosa importante. Con una rabbiosa, incrollabile decisione, Jamieson non lasciò la pistola.

Atterrò sul fianco, rotolò fulmineamente su se stesso, e girò la pistola verso l'alto, con l'indice nuovamente sul grilletto. A un metro dalla canna mortale, l'ezwal si sollevò con un ringhio orrido sul grande muso squadrato, spiccò un balzo di dieci metri a lato e spari, in un sorprendente lampo azzurro, dietro il tronco gigantesco di un fungo della giungla, più duro dell'acciaio.

Scosso, nauseato, Jamieson si sollevò a sedere e misurò l'ampiezza della propria sconfitta, i limiti della propria vittoria.

Tutto intorno a lui c'era una bizzarra giungla priva d'alberi. Funghi colossali, orridi, giallastri torreggiavano alti dieci, quindici, venticinque metri contro uno sfondo rosso-bruno-verde di liane brune aggrovigliate, di licheni verdi e d'erba bulbosa, forte, rossastra, incredibilmente alta.

L'ezwal s'era avventato in un altro intrico fitto come quello con la sua forza massiccia, irresistibile. Per un uomo a piedi, che non osava sprecare più di una frazione della scarsa energia rimasta nella pistola, era impenetrabile. un ostacolo al più semplice dei movimenti... l'ultimo luogo al mondo che avrebbe scelto per combattere contro qualunque cosa. Eppure

Quando aveva perso la calma aveva scoperto l'unico metodo possibile per estrarre la pistola senza preavvisare l'ezwal con i suoi pensieri. Alme no. non sarebbe stato trasportato impotente verso una colossale corazzata piena di viscidi, bianchi Rull.

I Rull!

Con un gemito. Jamieson balzò in piedi. Sotto i suoi piedi, il terreno infine cedette, ma istintivamente si portò su un tratto di funghi morti; e i toni aspri e incalzanti della sua voce gli echeggiarono negli orecchi, quando disse concitatamente:

«Dobbiamo agire in fretta. Le scariche della mia pistola devono essere state registrate dagli strumenti dei Rull. e quelli arriveranno tra pochi minuti. Devi credermi, quando ti dico che il vostro piano di allearvi con i Rull è una pazzia.

«Ascolta questo: tutte le navi che abbiamo inviato nella loro galassia hanno riferito che ogni pianeta, sui cento da loro visitati, era abitato... dai Rull. Niente altro. Nessun'altra razza. Devono aver annientato ogni altro essere intelligente.

«L'uomo ha quattromilaottocentosettantaquattro alleati non umani. Ammetto che tutti hanno civiltà abbastanza simili a quella dell'uomo; e poi c'è il caso diabolico degli ezwal, che non hanno edifici e non hanno una storia. Gli ezwal non possono difendersi contro le energie e le macchine. E francamente, l'uomo non abbandonerà il Pianeta di Carson prima di aver risolto in modo soddisfacente quell'importante problema difensivo.

«Voi e la vostra rivoluzione! Certo, la gente semplice, in preda al tormento, può fuggire cedendo al panico; ma resteranno i militari, un'organizzazione disciplinata e invincibile, cento corazzate, mille incrociatori, diecimila caccia soltanto per quella base. Il piano degli ezwal è ingegnoso soltanto per la sua comprensione della psicologia umana e perché può effettivamente riuscire a causare morte e distruzione. Ma in quel piano non c'è la concezione dell'immensità della civiltà interstellare, delle responsabilità e dei doveri dei suoi membri.

«La ragione per cui intendevo portarti sulla Terra era mostrarti le complessità e i veri problemi di quella civiltà, per provarti che non siamo malvagi. Ti giuro che l'uomo e la sua attuale, grandiosa civiltà risolveranno il problema degli ezwal in modo soddisfacente per gli ezwal. Cosa ne dici?»

Quelle ultime parole echeggiarono bizzarramente nello strano silenzio di morte del tardo pomeriggio che era sceso sul mondo-giungla di Eristan II. Poteva scorgere la chiazza confusa del sole, un disco velato basso nel cielo orientale. E venne la cruda certezza.

Anche se fosse sfuggito ai Rull, in due ore al massimo i grandi cacciatori zannuti e i rettili carnivori che infestavano le lente notti di quel lontano pianeta primitivo sarebbero usciti, affamati, dai fetidi nascondigli, e avrebbero cercato di saziarsi.

Doveva allontanarsi da quei maledetti funghi, trovare un vero albero dai rami alti e forti e, in un modo o nell'altro, restare lassù tutta la notte. Un sistema di liane intrecciate, piazzato nel modo dovuto, lo avrebbe avvertito dell'avvicinarsi di qualunque intruso... compreso l'ezwal.

Cominciò ad avanzare, tenendosi per prudenza tra gli arbusti più folti che potevano meglio nasconderlo. Dopo cinquanta metri, la giungla appariva più impenetrabile che mai, e aveva le gambe e le braccia indolenzite per la fatica. Si fermò e disse:

«Ti assicuro che l'uomo non si sarebbe mai insediato come ha fatto sul Pianeta di Carson, se avesse saputo che era abitato da esseri intelligenti. Vi sono leggi rigorose, che restano valide persino in casi di necessità militare».

La risposta giunse bruscamente: «Finiscila con questi appelli menzogneri. L'uomo possiede non meno di cinquemila pianeti occupati in precedenza da razze intelligenti. Nessuna prevaricazione può nascondere o giustificare cinquemila genocidi cosmici...».

I pensieri dell'ezwal s'interruppero. Poi, quasi casualmente: «Professore, mi sono appena imbattuto in un animale che...».

Jamieson stava dicendo: «I delitti dell'uomo sono neri quanto sono bianche e meravigliose le sue nobili opere. Devi comprendere questi due aspetti della sua personalità...»

«L'animale», insistette l'ezwal, «ora sta fluttando sopra di me e mi osserva, ma non riesco a percepire neppure una vibrazione dei suoi pensieri...»

«Oltre tremila di quelle razze, ora, hanno l'autogoverno. L'uomo non nega mai a lungo a un'intelligenza sostanzialmente buona la libertà d'azione tanto necessaria a lui stesso...»

«Professore!» Il pensiero trafiggerà come un coltello, ansioso, incalzante. «L'essere ha un ripugnante corpo vermiforme, e fluttua senza avere le ali. Non possiede un cervello, a quanto posso percepire».

Cautamente, delicatamente, Jamieson girò intorno a un gruppo di arbusti e alzò la pistola. E poi, rapidamente e sommessamente, disse: «Comportati come una belva, ringhiagli contro e poi precipitati nel sottobosco, se protende una di quelle minuscole mani vermiformi verso una delle sei intaccature che ha sui lati del corpo.

«Se non puoi metterti in contatto con la sua mente — noi non ci siamo mai riusciti, del resto — dovrai contare sul suo carattere, che è questo. Un Rull ode soltanto i suoni tra le cinquecentomila e le ottocentomila vibrazioni al secondo. Per questo io posso parlare a voce alta senza pericolo. Inoltre, ciò indica che il suo pensiero si muove su un livello di vibrazione immensamente diverso; deve temere e odiare ogni altra cosa, e probabilmente è per tale ragione che viene spietatamente sospinto sulla strada della distruzione.

«Un Rull non uccide per il suo piacere. Stermina. Forse considera alieno l'intero universo, e può darsi sia per questo che elimina tutti gli esseri importanti di ogni pianeta che intende occupare. Non possono avere l'intenzione di occupare questo pianeta, perché la nostra grande base su Eristan I è distante solo venticinquemila anni-luce, venticinque ore di volo con una corazzata. Quindi non ti farà nulla di male, a meno che abbia particolari sospetti. Comportati come un animale».

Jamieson fini, teso: «Ora cosa sta facendo?».

Non ebbe risposta.

I minuti trascorsero lenti: ma non c'era silenzio. Strani piccoli rumori giungevano da vicino e da lontano: lo scricchiolio remoto del legno sotto una zampa pesante, gli sbuffi sommessi di esseri che non erano esattamente vicini... ma troppo vicini per poter stare tranquillo.

Venne un ricordo più terribile della notte che scendeva, la fiamma viva del ricordo dell'unica volta che aveva visto un Rull divorare un essere umano.

Prima, gli indumenti erano stati strappati dalla vittima ancora viva, il cui sistema nervoso era stato quindi paralizzato parzialmente da un pungiglione del Rull. E poi il grosso verme bianco era strisciato sul corpo, era rimasto a giacere in quell'abbraccio osceno, anormale, mentre le bocche a ventosa mangiavano...

Jamieson trasalì, mentalmente e fisicamente. Una paura improvvisa, disperata, lo indusse a nascondersi meglio nell'intrico dei cespugli. Lì c'era silenzio, e neppure un soffio d'aria lo sfiorava. Dopo un momento, notò che era fradicio di sudore.

Trascorsero altri minuti; e poiché, in tutta la sua vita, il coraggio non gli era mai mancato a lungo, si avventurò nel pensiero concentrato di un tentativo di comunicazione: «Se hai qualche domanda da fare, per amor del cielo non perdere tempo».

Doveva spirare il vento sopra il suo fitto nascondiglio, perché una nebbia pesantemente intrisa dell'odore dell'acqua tiepida e viscida aleggiò sopra di lui, ostruendo anche quella visibilità limitata.

Jamieson si mosse, inquieto. Non era paura: la sua mente era un'unità serrata, come un pugno pronto a colpire. Ma improvvisamente si sentiva privo d'occhi in un mondo pieno di nemici terribili. Con crescente concitazione, proseguì:

«Il fatto stesso che tu abbia chiesto la mia assistenza per identificare il Rull implica il riconoscimento della nostra interdipendenza. Quindi, io chiedo...»

«Sta bene!». Il pensiero che gli rispose era fioco e lontano. «Ammetto che la mia incapacità di entrare in contatto con questo verme pone fine ai miei piani di creare un'alleanza anti-umani».

C'era stato un tempo, un tempo così vicino, pensò cupamente Jamieson, in cui quell'ammissione avrebbe suscitato in lui una genuina gioia intellettuale. Quei poveracci sul Pianeta di Carson, almeno, non avrebbero dovuto combattere contro i Rull, oltre che con la loro follia... e gli ezwal.

Si scosse, vagamente stupito che il suo morale fosse così basso. Disse, quasi disperato: «E noi?».